Deficit/pil al 2,4%: ministro Tria perde braccio di ferro ma non si dimette

di redazione Blitz
Pubblicato il 28 Settembre 2018 - 00:03 OLTRE 6 MESI FA
Giuseppe Conte Giovanni Tria

Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte (s) e il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria (foto Ansa)

ROMA – Il ministro dell’Economia Giovanni Tria non si dimetterà dall’incarico dopo il braccio di ferro sul livello del deficit/Pil da inserire nella Nota al Def.

Lo assicurano fonti di Palazzo Chigi al termine del vertice in cui è stato raggiunto l’accordo sul 2,4%. Un livello che verrà inserito direttamente nella nota di aggiornamento al Def e non successivamente in Parlamento.

Vince dunque la linea Movimento 5 Stelle e Lega:  nel 2019 il deficit sarà al 2,4% del Pil liberando 27 miliardi per la manovra. Riforma della legge Fornero, reddito e pensioni di cittadinanza, fondi per i risparmiatori colpiti dalle crisi bancarie, investimenti e calo delle tasse per gli autonomi arriveranno tutti nella legge di bilancio e saranno finanziati ricorrendo all’indebitamento.

Nel giorno in cui il Consiglio dei ministri è chiamato a varare la nota di aggiornamento al Def, la resistenza del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, non è bastata ad arginare la volontà politica comune delle due forze di governo, decise a portare a casa il risultato, una manovra espansiva che rappresenta una sfida aperta a Ue e mercati ma che fa esultare i parlamentari e militanti Cinquestelle in una vera e propria sfilata da Montecitorio a Palazzo Chigi.

Al ritorno del premier Giuseppe Conte dagli Stati Uniti, la giornata è stata animata da tensioni interne al governo e da un continuo susseguirsi di indiscrezioni non sempre univoche. Ufficialmente ad esporsi sono solo i due vicepremier, mentre il presidente del Consiglio e, soprattutto, Tria scelgono la linea del silenzio.

A parlare al posto del titolare dell’Economia è invece la Lega che annuncia un accordo condiviso da tutto il governo, raggiunto, assicura il partito di Matteo Salvini, anche con il via libera del Tesoro. Secondo quanto trapelato Tria avrebbe tentato, fino all’ultimo, di tenere il punto su una linea di maggiore prudenza, quella del deficit all’1,9% del Pil, necessaria per assicurare la stabilità finanziaria. Ma sin dalle prime ore di riunione a Palazzo Chigi, il pressing delle forze di maggioranza è stato incessante.

L’obiettivo reso pubblico da subito indicava cifre ben più alte, addirittura al 2,5% del Pil, e descriveva, con un mese di anticipo, persino le misure da inserire nella prossima legge di bilancio. Le risorse liberate dal deficit permetteranno infatti sia a Lega che a M5S di tenere fede alle rispettive promesse elettorali.

Il partito di Matteo Salvini potrà quindi portare a casa il superamento della legge Fornero, bandiera anche dei Cinquestelle, consentendo l’uscita di “400mila” lavoratori per lasciare posto ai giovani, la flat tax per gli autonomi al 15%, la pace fiscale e più investimenti per scuole strade e Comuni. Luigi Di Maio potrà garantirsi invece 10 miliardi per il reddito di cittadinanza, destinato a una platea di 6 milioni e mezzo di persone, e il via libera alla pensione di cittadinanza, oltre a 1,5 miliardi da destinare ai risparmiatori colpiti dai crack bancari. “Per la felicità degli italiani vale la pena sforare il 2%”, è stato il mantra di Salvini, a cui ha fatto eco Di Maio convinto sponsor di una manovra “coraggiosa”.

“La Ue – ha scandito il ministro del Lavoro – non preoccupa, avremo modo di interloquire”. Ma la trattativa potrebbe non essere così semplice. La reazione dell’Europa potrebbe rivelarsi dura, così come duro potrebbe essere già da domani mattina il giudizio dei mercati. Questi numeri, che non consentono minimamente né di continuare a fare scendere il debito né di “non peggiorare”, come ha sempre predicato Tria, il saldo strutturale, il rischio è di andare anche allo scontro frontale con la Commissione europea. Bruxelles potrebbe rispedire indietro la manovra già a fine ottobre – mai successo finora a nessun Paese – qualora riscontrasse gravi violazioni delle regole.

Anche le maggiori agenzie di rating come Standard & Poor’s e Moodys, che avevano finora sospeso il giudizio sull’Italia, potrebbero infatti optare per un declassamento che potrebbe costare caro sul fronte della fiducia dei mercati. E in termini di tassi di interesse che già costerà all’Italia 3-4 miliardi aggiuntivi nel 2019.