La vedova Moro e la condanna alla Dc: “Chi era ai posti di comando lo voleva eliminare”

Pubblicato il 19 Luglio 2010 - 17:25 OLTRE 6 MESI FA

Aldo Moro

”Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”. Fu lei, Eleonora Moro, morta oggi a 95 anni, a chiudere la vicenda terrena di suo marito, nel maggio del 1978, con queste poche parole e tre gesti per l’epoca dirompenti: no a funerali di Stato, no a medaglie e no a lutto di Stato.

Nulla che venisse dal potere politico era, dopo la morte del Presidente della Dc, accettabile o credibile per la sua famiglia. Anche il funerale in forma strettamente privata fu qualcosa di simile a un ”rapimento”, che si concluse a Torrita Tiberina. Un funerale in forma strettamente privata, quasi schiva, lontano da telecamere e ”certe facce”.

No alla Dc, no allo Stato, no alle verità di comodo, e sì alla ricerca di quelle verità ancora oggi inconfessabili sulla vicenda del rapimento di Moro e della uccisioni dei cinque fedelissimi della scorta. A suo modo la signora Moro la sua sentenza, in attesa di quella della storia, la emessa e senza appello: lo Stato ha ucciso Aldo Moro con scelte volontarie. Sapeva tanto e non è intervenuto.

In questi anni Eleonora Moro ha rotto poche volte il suo silenzio. Si favoleggia di un ”diario segreto” di cui scrissero ripetutamente i giornali che conterrebbe quelle ”verità indicibili” viste dalla parte della famiglia. Eppure, sia pur in maniera indiretta, la signora Moro quelle ”verità” le ha indicate.

”Quelli che erano nei vari posti di comando lo volevano eliminare” disse pochi anni fa all’ex magistrato Ferdinando Imposimato che, con qualche guaio, riportò quel giudizio nel libro scritto con Sandro Provvisionato, ”Doveva morire”.

”Aldo Moro era un uomo che non aveva paura. Camminava verso la sua morte tranquillo, come se andasse a fare una passeggiata. Quando una persona non la si può corrompere, né spaventare, l’unica possibilità è quella di eliminarla perché troppo pericolosa. Aldo conosceva fatti che risalivano a dieci,venti anni prima. Loro si rendevano conto di essere i veri prigionieri. E che c’era una sola cosa da fare: ucciderlo. Anche perché, conoscendo la profonda onestà di Aldo Moro, erano certi che egli non aveva lasciato scritto la storia di ognuno di loro su dei pezzi di carta, consegnandoli ad un notaio”.

”Vede – diceva ancora la vedova di Moro – a coloro che lo hanno fatto uccidere non posso stringere la mano. Se li incontro, li saluto da lontano e filo via rapidamente”. E ancora: ”Se solo fossero stati modestamente intelligenti avrebbero capito che al potere non si arriva mai attraverso il delitto”.

”La verità viene sempre fuori, ma deve trovare la giusta accoglienza. Se la gente volesse davvero capire come è andata questa vicenda, avrebbe tutto chiaro davanti a sé”. E ancora: ”Ora vedo che coloro che hanno ucciso Moro sono vivi. Non mi riferisco a quei quattro poveretti che gli hanno sparato. Intendo gli altri, quelli che, quelli che avendo in mano…Non mi faccia parlare. Sono tutti conniventi”.

La signora Eleonora si interessò, tramite una delle figlie, dell’uscita di un recente libro che ha svelato che Moro era rinchiuso in Via Gradoli e che lo Stato, tramite un servizio segreto clandestino, L’Anello, aveva perfettamente individuato dove il Presidente della Dc fosse rinchiuso. Sono i giorni in cui Moro scrive, senza una apparente spiegazione, cinque testamenti. I giorni in cui si inscena la ”scoperta” del covo romano.

Di Gradoli parlò in Tribunale Eleonora Moro, nel 1981, quando ricordò l’inutile sua indicazione di andare a vedere nella strada romana e non nel paesino laziale, come poi si fece. Della prigione di Moro scoperta e della scelta dello Stato di lasciar stare, di non intervenire, scrisse anche il giornalista Mino Pecorelli. E ancora le incongruenze sull’ora e sul luogo della uccisione di Moro: alle 9,30-10 e non all’alba e a poche decine di metri da dove il corpo venne ritrovato e non nella periferica via Montalcini, nel quartiere della Magliana.

Ma su questo e sul tanto detto ”in silenzio” da Eleonora Moro e dai suoi figli nessuno sembra voler mettere mano: non più i magistrati, non ancora gli storici, sempre meno i giornalisti. E allora il tutto rimane affidato alla storia che dovrà giudicare sulla vita e sulla morte dell’amato marito che consegnò un ”pegno di amore” alla sua sposa nell’ultima lettera prima della ”esecuzione”.