Dal governo no al reintegro ma Monti si rassegna alla riforma senza data

Pubblicato il 23 Marzo 2012 - 17:51 OLTRE 6 MESI FA

Elsa Fornero e Mario Monti (Lapresse)

ROMA – Il governo tiene il punto sui licenziamenti per motivi economici: nessun giudice potrà stabilire il reintegro al posto di lavoro ma solo il pagamento di una indennità economica. E’ un no alle pressanti richieste del Pd di Bersani, della Cisl di Bonanni e una porta chiusa ad eventuali ma improbabili ripensamenti della Cgil di Susanna Camusso. Ma Mario Monti sceglie il passo lento, il disegno di legge e non il decreto legge. E’ un modo per tentar di evitare che il vasto fronte delle opposizioni che ingrossa diventi rivolta, è una via stretta offerta al Pd per non esplodere a sua volta, il partito di Bersani potrà dire: non siamo d’accordo, modificheremo in Parlamento.

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Non a caso il Pdl di Alfano e, pochi minuti prima della scelta del Consiglio dei ministri, il presidente del Senato Renato Schifani avevano fatto sapere di preferire invece il decreto legge, il prendere o lasciare. Bersani aveva avvertito: “A noi non si dice prendere o lasciare, con noi si ragiona”. Non cede dunque Monti sul principio dei licenziamenti per natura economica non cancellabili dalla magistratura. Ma non insiste, non forza la mano, prende e concede tempo, anche a rischio di veder quel principio riaffermato oggi domani rimesso in discussione dai partiti e dalle Camere.

Un prendere e dare tempo che sopisce ma non risolve: può domani passare alle Camere una riforma del lavoro votata da una maggioranza, se maggioranza potrà essere nei numeri, fatta solo di voti Pdl e Terzo Polo con il no del Pd, dell’Idv e della Lega? E, anche passasse, potrebbe il governo Monti sopravvivere allo sfilarsi del Pd dalla maggioranza su una questione di primaria importanza? E se invece domani le Camere dovessero emendare nella direzione voluta dal Pd e allora decidesse di sfilarsi il Pdl? Rimandare la questione all’estate o addirittura all’autunno momentaneamente sopisce ma per nulla risolve. Il passo lento è stato imposto a Monti dallo stato e dalla forza delle cose e consigliato, se non addirittura concordato con Giorgio Napolitano.

Il presidente della Repubblica aveva ricordato più volte che la riforma del lavoro “non è solo l’articolo 18”. E infatti il testo approvato “salvo intese”, una formula che tradotta in italiano corrente significa un “poi si ved”e, molte altre cose contiene. Il rito abbreviato, cioè una giustizia celere nel decidere sulle cause per licenziamenti, il congedo di paternità obbligatorio, l’apprendistato come “trampolino” per il posto fisso, il reddito ai lavoratori anziani in “esodo” dal lavoro a carico delle aziende, le quote rosa nelle società pubbliche, la mini Aspi, l’assicurazione sociale per i giovani con pochi versamenti e pochi periodi di lavoro alle spalle, la “vigilanza sugli abusi” eventuali dei datori di lavoro in tema appunto di licenziamenti e altro ancora. Ma il nodo dell’articolo 18 non è sciolto, la “questione non è chiusa”. Il governo ha detto la sua e non ha cambiato idea ma allo stato è un’idea alla ricerca di una maggioranza in Parlamento. Ricerca che sarà lunga, lenta, incerta e pericolosa. A questo il governo, più per forza altrui che per scelta propria, si è rassegnato.