Ilva sta esplodendo in faccia a governo e giudici. Nessuno obbedisce a nessuno

Pubblicato il 18 Gennaio 2013 - 17:00 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – L’Ilva e Taranto stanno esplodendo in faccia al governo, alla magistratura, alla gente che lì lavora e vive. Il governo nazionale ha convocato un vertice d’urgenza, Nichi Vendola, governatore della Puglia, dichiara che “la situazione sta precipitando” e quasi invoca che la Corte Costituzionale decida ancora più in fretta di quanto non c’è scritto sul suo calendario di lavoro: 13 febbraio. Troppo lontano il 13 febbraio, ha ragione Vendola, Ilva e Taranto stanno esplodendo in faccia a tutti.

In primo luogo al governo che aveva emesso decreto che doveva obbligare la proprietà dell’Ilva a risanare l’azienda in modo che progressivamente non inquinasse più, pena perfino il sequestro dello stabilimento. Decreto che doveva anche obbligare, sì di fatto obbligare, la Procura di Taranto ad accettare che l’Ilva ricominciasse a produrre il suo acciaio. Bene, anzi male due volte: il decreto del governo è stato nei fatti “disobbedito” dall’azienda che non fa partire il piano di bonifica e dalla magistratura di Taranto che impedisce il ripristino della produzione. Dice l’Ilva: la bonifica non parte se non possiamo produrre e vendere, altrimenti con quali soldi bonifichiamo? Dice la Procura: i materiali prodotti, l’acciaio sfornato resta sulle banchine e nei magazzini invendibile perché è corpo del reato di inquinamento. Un miliardo di euro di prodotti metallurgici restano, sono bloccati così da settimane.

L’Associazione Faderacciai con il suo presidente Antonio Gozzi parla di “Accanimento giudiziario” e spiega al quotidiano di Confindustria Il Sole 24 Ore che “anche i magistrati devono rispettare le leggi e che i prodotti vanno dissequestrati subito”. Accusa precisa alla Procura di Taranto di aver aggirato, disobbedito al decreto del governo. Accusa precisa di boicottaggio con mezzi giudiziari di un’azienda. La Procura non risponde direttamente ma di certo guarda con favore alla notizia di un referendum cittadino sul futuro dell’Ilva che il sindaco ha indetto per il 14 aprile. Referendum consultivo con due opzioni da votare: chiusura totale o parziale dell’Ilva.

Ma al 13 febbraio o al 14 aprile sarà difficile arrivare, già in sciopero sono i metalmeccanici della Cisl della “area a freddo”. Divisi, nervosi sono i sindacati, divisi tra loro e comprensibilmente nervosi perché da mesi sono il vaso di coccio. Arriva la notizia che l’Ilva ha perduto un contratto, una commessa americana da 25 milioni di euro per la costruzione di un gasdotto in Oklaoma. Quindi, si fa presto a fare due più due, con un miliardo di euro a deteriorarsi sulle banchine e con milioni di commesse buttate e perdute non è per nulla detto che il prossimo stipendio venga pagato. Girano voci che i Riva vogliano mollare, gettare la spugna. L’Ilva significa migliaia di posti di lavoro a Taranto e altre centinaia in almeno altri tre siti italiani. Significa anche una delle ultime industrie “pesanti” rimaste in Italia: stime sul costo per la collettività della chiusura dell’Ilva hanno in questi mesi oscillato tra i quattro e i dieci miliardi di euro. Nessuno può calcolarle con esattezza e ormai nessuno sa più con esattezza come impedire che accada.

Si sa solo che l’Ilva sta esplodendo in faccia, alla magistratura che la voleva sanare a costo di chiuderla, al governo che la voleva aperta perché potesse sanarsi, agli operai, agli impiegati, agli addetti nelle altre sedi Ilva, all’indotto, al sistema industriale italiano, alla fine, se sarà pessima fine, anche al contribuente italiano. E tutto perché in questo meraviglioso paese nessuno è in grado di farsi obbedire da nessuno e ciascuno si ritiene in diritto di non obbedire a nessuno.