«Sarkozy ha ragione ma non è certo una novità. Anche l’Italia usa da anni la tecnica dei rimpatri assistiti e volontari. Nel 2007, proprio con i rom, usò questa strada pure il sindaco di Roma, che non era Jean-Marie Le Pen ma Walter Veltroni. E figuriamoci se allora qualche professionista dell’antirazzismo si sognò di gridare allo scandalo».
A parlare è il ministro degli Interni Roberto Maroni intervistato dal Corriere della Sera. Secondo il ministro dunque, la Francia non sta «facendo altro che copiare l’Italia». Semmai, dice, è arrivato il momento di fare un passo in più per permettere «la possibilità di espellere anche i cittadini comunitari».
«Espulsioni – prosegue il ministro – come per i clandestini, non rimpatri assistiti e volontari. Naturalmente solo per chi viola la direttiva che fissa i requisiti per chi vive in un altro Stato membro: reddito minimo, dimora adeguata e non essere a carico del sistema sociale del Paese che lo ospita. Molti rom sono comunitari ma non rispettano nessuno di questi requisiti».
L’Unione europea dice tuttavia che l’espulsione dei cittadini comunitari non è possibile, Maroni replica: «Lo so bene. Durante la discussione per il pacchetto sicurezza fu proprio l’Italia a chiedere a Bruxelles la possibilità di attivare questa procedura. Ma il commissario Jacques Barrot, francese, rispose di no: in base al principio di proporzionalità, disse, l’unica sanzione possibile per un comunitario è l’invito ad andarsene, che serve a ben poco. Ma adesso torneremo alla carica. Il 6 settembre ne discuteremo a Parigi in un incontro con i ministri dell’Interno di diversi Paesi europei».
Se espellere solo i rom può sembrare un atto discriminatorio, il ministro spiega che « le espulsioni dovrebbero essere possibili per tutti i cittadini comunitari, non solo per i rom. Il problema semmai è un altro: a differenza di quello che avviene in Francia, da noi molti rom e sinti hanno anche la cittadinanza italiana. Loro hanno diritto a restare, non si può fare nulla».
A proposito delle critiche rivolte contro Sarkozy, che in Francia è stato criticato dalla Chiesa, dall’Ue e dal Vaticano ma con dei toni meno duri rispetto a quelli usati a suo tempo contro l’Italia, Roberto Maroni dice che si tratta di un vecchio pregiudizio duro a morire in certi ambienti della sinistra, della Chiesa e dell’associazionismo: «Se una cosa la fa Zapatero va bene, se la fa Sarkozy insomma, se la fa il governo Berlusconi con un ministro leghista bisogna dargli addosso perché sicuramente viola i diritti umani».
La Chiesa proprio in queste ore torna ad esprimere i suoi dubbi sul federalismo. Dice il cardinal Bagnasco che, se disgrega il Paese, non è un valore: «Ma il cardinale dice anche che il federalismo è una ricchezza se unisce il Paese. Bagnasco è una persona saggia e prudente, e nella legge ci sono già tutte le risposte. Il federalismo porterà più equità, perché chi spenderà soldi pubblici ne dovrà rispondere più di quanto debba fare oggi».
Il ministro spiega tuttavia che non si tratta di pregiudizio che, a suo modo di vedere, segue invece altre strade: «L’anno scorso proprio Zapatero ha fatto una legge che riprende la Bossi-Fini. Non ho sentito la solita levata di scudi che segue ogni nostra decisione».
A proposito della Bossi – Fini per il ministro degli Interni, dopo la rottura con il presidente della Camera, non è giusto cambiare nome alla legge: «Si chiama Bossi—Fini: primo Bossi, secondo Fini. Va bene così. E poi il presidente della Camera non ha rinnegato il principio fondamentale di quel testo: in Italia entra solo chi ha un lavoro mentre prima poteva entrare anche chi diceva che un lavoro lo stava cercando, magari con l’aiuto di uno sponsor. Fini propone tante cose che non condivido: il voto agli immigrati, la riduzione dei tempi per avere la cittadinanza, adesso par di capire che si butterà sul matrimonio gay. Ma almeno su quel punto non ha fatto marcia indietro». Alla domanda se Fini si debba dimettere oppure no, Maroni dichiara: «Non mettiamo altra carne al fuoco…».
Se sia giusto o no che temi come l’immigrazione e la sicurezza diventino temi elettorali, Maroni smentisce in parte la linea fin qui seguita dal governo: «Non è necessario perché non abbiamo bisogno di nuovi provvedimenti legislativi. Tutti quelli che erano nel programma sono stati già approvati. Si tratta di dare loro piena attuazione ma questo spetta al governo, il Parlamento non c’entra».
Infine, sulla possibilità di voto a dicembre, così come vorrebbe Bossi, Roberto Maroni spiega che «il Viminale è un ministero h 24. Tutti i suoi servizi sono sempre mobilitati, compreso quello elettorale. Adesso stiamo lavorando alla revisione dei collegi per le elezioni provinciali che si terranno nella primavera dell’anno prossimo. Ma siamo sempre pronti».
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