Quirinale: Amato e Prodi in pole. I veti di Renzi, i “voti” di Grillo

Pubblicato il 15 Aprile 2013 - 09:36| Aggiornato il 14 Gennaio 2023 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Quirinale: Amato e Prodi in pole. I veti di Renzi, i candidati di Grillo. Perché il successore di Napolitano venga eletto a larga maggioranza (due terzi dei votanti, 671 voti) potrebbero occorrere tre votazioni (la prima il 18, l’ultima venerdì 19 aprile), mentre servirà sicuramente un accordo Pd-Pdl su un nome condiviso che potrebbe rispondere a quello di Giuliano Amato (l’altro papabile Franco Marini ha ricevuto il tocco della Medusa Renzi, così come Anna Finocchiaro, impallinata al ricordo di una visita all’Ikea con scorta).

Se, invece, il nuovo Capo dello Stato sarà stato eletto soltanto con uno scarto limitato di voti in più, significa che l’alto accordo, o il basso inciucio, dipende dalle sensibilità, non c’è stato e quindi, alla quarta votazione, già da venerdì 18 aprile al pomeriggio,  una maggioranza assoluta (basta un voto in più) avrà decretato il nome della più alta carica dello Stato, un Prodi per esempio, spauracchio del centrodestra ma molto apprezzato dai grillini tanto più dopo l’investitura virtuale delle Quirinarie a 5 Stelle. Anche Emma Bonino è fuori dai giochi inciucisti (o da prospettive di larghe intese e governissimi) ma anche lei va molto forte tra i grillini.

Quindi Amato-Prodi è il duo di nomi che pagherebbero premi più bassi al borsino del Quirinale: quote un po’ più alte per Marini e Bonino, mentre secondo il Giornale (“Tre nomi e un jolly”) c’è da aspettarsi una sorpresona finale che accontenti Berlusconi senza far esplodere il Pd. Nella partita doppia governo-Quirinale non tornano i conti. La soluzione Amato piacerebbe al centrodestra che al via libera al Colle aggiungerebbe quello al Governo a patto che venga usato un po’ di riguardo verso di loro con qualche particina nel futuro cast per non essere trattati come paria politici.

La seconda soluzione, Prodi, ha il sapore dell’intimidazione nei confronti del Pdl, una specie di accordo preventivo con i grillini per quel governo del cambiamento annunciato da Bersani. I quali grillini, mentre il loro capo insulta i partiti cialtroni e rispolvera Tito Livio (a Roma si parla Sagunto è espugnata), temono infiltrazioni democratiche nel loro sistema di consultazione telematica e che il pur apprezzato ex premier possa rappresentare, alla fine, il classico cavallo di troia di una politique-politicienne che essi rifuggono come la peste. Per Berlusconi sarebbe il segnale del “via tutti dall’Italia” come ha ironizzato ma non troppo nel comizio di sabato. Perché, a proposito di comizi, la campagna elettorale da strisciante si è fatta di nuovo conclamata.

Bersani a Roma, per un appuntamento contro la povertà, ha messo in riga Renzi: s’è tolto un macigno dalle scarpe (“Certe cose nemmeno da mio padre me le faccio dire, è indecente”) ma ha sortito l’effetto contrario. Dopo aver liquidato Marini (“Non lo vota nessuno”) e “ammazzato” Finocchiaro (souvenir da Ikea), superando Grillo a sinistra nelle vesti di Savonarola anti-casta, Renzi attacca anche Bersani rinfacciandogli di cercare solo l’insulto. Si sente isolato, maltrattato, incompreso (un estraneo nel Pd”) mentre, nel frattempo, un vecchio frequentatore di cose piddine come Fabrizio Rondolino sul Giornale ci spiega come in realtà sia entrato nelle grazie dell’ex arcinemico D’Alema che sta pian piano convincendo il partito che proprio Renzi, è il futuro altro che Barca.

Per problemi opposti (fibrillazione massima nella Lega, depressione post voto tra le file di Scelta Civica) Maroni e Monti vengono dipinti sui quotidiani come abbastanza malleabili, privi insomma di Rubiconi da attraversare ma attenti a non farsi tagliare dall’importantissima doppia partita in corso.