Schifani, si comporta da “ultrà” allo stadio. E al Senato

Pubblicato il 6 Maggio 2010 - 10:33 OLTRE 6 MESI FA

Renato Schifani

Per l’ennesima volta il presidente del Senato Renato Schifani ha perso un’occasione per dare buona prova si se stesso. Allo stadio Olimpico con il compito istituzionale di premiare la vincitrice della finale di Coppa Italia tra Roma e Inter, ieri sera evidentemente non si è accorto del clima avvelenato della partita, consumatasi tra calcioni in campo e tensione in tribuna. Non ha trovato dunque di meglio da fare che minimizzare gli incidenti – come a voler dire “sono ragazzi” –  festeggiando tra i giocatori interisti che alzavano il trofeo.

Un atteggiamento a dir poco di parte, privo certamente di quella “terzietà” propria della seconda carica dello Stato, ovvero di colui che dovrebbe stigmatizzare e non certo ridurre alla sfera di “semplici bravate” i comportamenti e gli episodi di violenza, almeno in teoria.

Eventi “calcistici” a parte, il presidente del Senato non sta certamente vivendo un periodo “brillante” se si pensa che solo poche ore prima della partita il vicepresidente dei senatori del Pd Luigi Zanda, intervenendo nell’Aula di Palazzo Madama, aveva espresso “fastidio e amarezza per il basso livello qualitativo raggiunto dai lavori del Senato negli ultimi mesi”.

“L’attività del Senato – ha spiegato Zanda – è ormai scandita dalla necessità di convertire i decreti legge e l’iniziativa parlamentare è diventata del tutto residuale. In questo modo il calendario del Senato mortifica e degenera l’intero sistema parlamentare. Dall’inizio della Legislatura, l’Assemblea del Senato ha lavorato solo due giorni a settimana – ha spiegato il vicepresidente – per un numero di ore inferiore alla metà di quello della Camera”.

“Il Presidente del Senato – ha attaccato Zanda – ha tutti gli strumenti per prevenire le disfunzioni degli iter ‘legislativi’, ha l’autorità per influenzare il governo, per far si che diminuisca il numero dei decreti legge e per indurre le Commissioni a lavorare meglio.

“L’appello-denuncia” del vicepresidente dei senatori Pd si era concluso proprio con una richiesta allo stesso Schifani e con l’invito esplicito ad usare i suoi poteri per “migliorare la qualità del lavoro del Senato” e “farlo con indipendenza”, senza tener conto né dell’opposizione né della maggioranza per impedire che il Senato diventi una “dependance del governo”.

Lo stesso Zanda aveva già in passato criticato più volte l’operato del presidente Schifani. Solo il 22 aprile scorso aveva ad esempio commentato un’intervista rilasciata dalla seconda carica dello Stato ribadendo come con le sue dichiarazioni sulle pagine del quotidiano fosse diventato «ancora più sottile il confine tra lo Schifani presidente del Senato e lo Schifani militante del Pdl».

E ancora, un mese fa Zanda aveva bacchettato Schifani a proposito dell’esclusione della lista del Pdl dalle elezioni Regionali del Lazio. Schifani, infatti, aveva affermato sostenendo la tesi della riammissione del Pdl, che «la sostanza deve prevalere sulla forma». Zanda lo aveva allora attaccato dai banchi di Palazzo Madama ricordandogli «il ruolo del Presidente del Senato, che deve essere garante della forma», aggiungendo che  «forma vuol dire leggi». «Il Presidente del Senato è garante della legislazione e quindi deve essere garante delle regole e di tutte le forme. Di quelle stesse forme che Lei, Presidente ha detto poco fa di augurarsi che vengano sacrificate alla sostanza», aveva ribadito ancora Zanda rivolgendosi alla seconda carica dello stato e alla sua presunta imparzialità da recuperare.

Gli affondi di Zanda non sono mancati nemmeno nei mesi scorsi, anche sul cosiddetto processo breve, in merito al quale il vicepresidente aveva gentilmente ricordato a Schifani di “rispettare i diritti delle opposizioni in misura almeno pari a quelli della maggioranza” citando l’operato di Schifani che a suo dire aveva “rifiutato la sospensione dei lavori” quando era stata chiesta dalle opposizioni “ma aveva accolto la stessa richiesta quando a formularla era stato il capogruppo della maggioranza Maurizio Gasparri”.

Sul fronte del diritto le cose non sembrano andare meglio.

Venerdì 16 aprile, infatti, Schifani rilascia la seguente dichiarazione: ”La volontà degli elettori è sacra. Siamo in un sistema maggioritario e, come ho detto ad ottobre, nel momento in cui il patto elettorale dovesse venir meno, difficilmente si potrebbe dar vita a un altro esecutivo diverso da quello voluto dagli elettori. Non ci sono ribaltoni. Lo dissi alla cerimonia del Ventaglio, l’anno scorso, quando un ribaltone si stava realizzando in Sicilia”.

Errore da universitario: l’Italia – come la seconda carica dello Stato dovrebbe sapere – non è a sistema maggioritario ma è una democrazia parlamentare. Gli elettori hanno votato per dei partiti, non per un governo e tantomeno per un capo di quel governo. Il governo guidato da Silvio Berlusconi è sostenuto da una coalizione formata da due partiti distinti, il Pdl e la Lega, come lui sa più che bene. Ma Schifani fa finta di vivere in un altro Paese e forse parla per minacciare Fini, questo non è dato saperlo. Un fatto è certo: se le tensioni con Fini si trasformano in danni irreparabili, il presidente del Consiglio Berlusconi deve andare dal capo dello Stato Napolitano e dimettersi mentre Napolitano, non Schifani, indice nuove elezioni solo dopo avere accertato che una nuova maggioranza in Parlamento non si può formare.

Schifani non è preparato o la sua imparzialità dà segni evidenti di cedimento? Per saperlo si attendono tempi migliori.