Superstipendi, tetto-Monti. Parlamento: sì con la testa, no con la penna

Pubblicato il 29 Febbraio 2012 - 11:29 OLTRE 6 MESI FA

Donato Bruno, parlamentare Pdl (foto LaPresse)

ROMA – Che il tetto-Monti sui superstipendi dei dipendenti pubblici  facesse acqua si sapeva, ma il Parlamento ha accettato di toccare gli attuali emolumenti dei manager “apicali”, tipo Mastropasqua all’Inps, Befera all’Agenzia delle Entrate, Manganelli capo della Polizia, Canzio ragioniere dello Stato ecc.., che superano abbondantemente il limite fissato a 300 mila euro. Tutti gli impedimenti giuridici, le resistenze, i distinguo e i dubbi di equità sono stati però illustrati con causidica precisione dal parere della Commissione Lavoro e Affari Costituzionali, cui il decreto del Governo è stato sottoposto prima di essere licenziato.

Parere che, con sottile perfidia parlamentare, è definito “favorevole” dai suoi relatori Bruno e Moffa (Pdl e Responsabili). In linea di principio accoglie il provvedimento, in pratica lo smonta pezzo per pezzo. E’ da almeno 5 anni che ci si prova, ma ogni tentativo sbatte contro un muro di gomma che attutisce, rimbalza, vanifica, con motivazioni, peraltro, spesso ineccepibili. Comunque, nonostante il parere “schizofrenico”, il provvedimento è stato approvato, addirittura all’unanimità: tutti sotto i 300 mila euro, da subito, senza aspettare le prossime nomine.

Primo ostacolo: perché un ragioniere dello Stato, o il primo presidente della Corte di Cassazione (è lui che prende i 300 mila euro l’anno posti come limite invalicabile)  dovrebbero prender meno di un city-manager? Il Capo della Polizia ha forse meno responsabilità di un dirigente regionale? La risposta è implicita: però, il tetto si applica solo ai dipendenti dello Stato, l’autonomia degli enti locali è intangibile. Il principio di equità qui salta. Come salta per i presidenti delle authorities, anche loro non assimilabili allo Stato, perché contribuiscono alla loro sussistenza anche i privati.

Secondo ostacolo: la “reformatio in peius”, cioè una decurtazione dello stipendio su un contratto in essere è anti-costituzionale, non si può fare e in ogni caso eventuali ricorsi sarebbero accolti dalla Consulta. Quindi, se tetto ci sarà, potrà valere solo sui contratti futuri. Si tratta di diritti acquisiti. Diritti che, evidentemente, non sono abbastanza acquisiti per il pensionato cui si abbassa l’assegno previdenziale o, è giusto dirlo, per il parlamentare. Senza contare che in effetti una decurtazione, anche i manager pubblici, con stipendi otre i 90 e i 150 mila euro, hanno digerito, come altre figure professionali, contributi di solidarietà rispettivamente del 5% e del 10%. Mani in tasca anche quelle.

Terzo ostacolo: il tetto non tiene conto del problema rappresentato dai cumuli di stipendio. La norma sul tetto-stipendi nega la possibilità di cumulare per intero gli stipendi derivanti dal doppio incarico: si prende lo stipendio ministeriale aumentato di un quarto, non di più. I relatori contestano che manca un criterio di equità, perché non tutti assumono incarichi di uguale responsabilità. Una obiezione fondata che però impedirà di contrastare con efficacia il disinvolto costume di cumulare cariche.

Ostacoli vari ed eventuali. Non si sa quanto effettivamente guadagnano i manager pubblici, la glasnost imposta ai ministri qui non è applicata, serve trasparenza anche per capire su cosa si applicherebbe il tetto. La norma che doveva adeguare gli stipendi dei parlamentari alla fantomatica media europea avrebbe dovuto riguardare anche i manager pubblici, che fine ha fatto?