Suicidio Blefari, Marco Biagi morì il 19 marzo del 2002

Pubblicato il 1 Novembre 2009 - 19:34 OLTRE 6 MESI FA

Marco Biagi

Quando Marco Biagi, il 19 marzo 2002, lascia per l’ ultima volta l’ università di Modena, in cui dal 1991 è direttore del Centro studi internazionali e comparati del Dipartimento di economia aziendale, è da tempo un uomo sovraesposto: soprattutto da quando, nell’ ottobre del 2001, ha firmato, con il sottosegretario Maurizio Sacconi e un pool di esperti, il “Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia” per conto del ministro del Welfare Roberto Maroni.

Stava lavorando, anche quel pomeriggio, alla preparazione dell’ imminente convegno sul “Libro bianco” che invece sarebbe stato celebrato, postumo e in ritardo per ovvie ragioni, nell’ ottobre successivo. Quando lascia il Foro Boario Marco Biagi è anche e soprattutto un uomo solo. Nonostante la sovraesposizione, nonostante venga indicato come l’ erede di Massimo D’ Antona, nonostante le minacce denunciate, da mesi non ha più né scorta né tutela: il più facile dei bersagli. Col senno del poi tra i più ovvii.

E’ in ritardo, il prof.Marco Biagi, docente di sinistra, ispirazioni socialiste, che per la riforma del lavoro ha deciso di collaborare anche con il governo di centrodestra, un salto di steccato che in molti non gli perdonano. Una telefonata lo trattiene più a lungo nel suo studio, stanza 43 del primo piano ala est del Dipartimento. Quel Dipartimento che a lungo si è interrogato angosciato sulla possibile esistenza di una talpa che, più o meno inconsapevolmente, abbia fornito ai suoi assassini informazioni sulle abitudini del professore.

Biagi avverte telefonicamente casa del lieve ritardo con cui sarebbe arrivato. A piedi raggiunge lo scalo modenese, perde il treno previsto, l’ Intercity delle 19.00 che avrebbe dovuto portarlo a Bologna alle 19.28. C’ è un treno immediatamente dopo, alle 19.12. Con questo il giuslavorista raggiunge il piazzale ovest della stazione di Bologna alle 19.37. Dai fotogrammi delle telecamere a circuito chiuso, utilizzati in seguito dagli investigatori per ricostruire questi ultimi drammatici minuti di una vita che sta per concludersi sul pavimento veneziano sotto il portico davanti a casa sua, si intravedono due giovani. Una ragazza che, come Biagi, scende dal treno. Un ragazzo che l’ accoglie sul marciapiede e la bacia.

Artatamente, sembra, tanto da destare sospetti. Sono forse loro che avvertono il commando in attesa in via Valdonica del ritardo del “bersaglio”? Il docente non si avvia subito verso casa. Prima passa alla biglietteria dello scalo per comprare un biglietto del treno, da utilizzare verosimilmente il giorno successivo. Sono le 19.55, come viene stampigliato sul tagliando dal bigliettaio. Biagi esce dalla palazzina liberty, attraversa piazzale Medaglie d’ oro e il prospiciente viale Pietramellara per raggiungere, dirimpetto, la Galleria 2 agosto (la data della strage alla stazione del 1980), dove è posteggiata e incatenata la sua bicicletta.

Da lì a via Valdonica sono poche centinaia di metri. Biagi vi arriva che sono da poco passate le 20. In attesa, il commando omicida, tre assassini. Due uomini a bordo di uno scooter, forse una Vespa vecchio tipo, coi volti coperti da caschi integrali. Poco distante, davanti al civico 14 di via Valdonica, un terzo uomo a volto scoperto, forse il palo. Biagi, arrivato sulla soglia della palazzina in quello che fu il Ghetto ebraico della città, appoggia la bici al muro. Fa per aprire il portone con la chiave. L’ uomo col casco e la pistola si avvicina. Biagi ha giaccone e giacca aperti. Il primo proiettile di una semiautomatica 9 corto Browning infatti ferisce Biagi all’ anca destra senza bucare quei vestiti. Poi altri cinque colpi, in serie, uno solo dei quali non va a segno, lo uccidono.

L’ ultimo è, ravvicinato, il colpo di grazia, come a evidenziare che il riformista è stato “giustiziato”. Biagi muore in pochi istanti. Il medico legale, Corrado Cipolla d’ Abruzzo, colloca il decesso tra le 20.16 e le 20.25. Gli assassini fuggono, ma la scena viene immortalata, seppure in frammenti, da diverse testimonianze che sembrano incastrarsi alla perfezione l’ una nell’ altra. A terra, nei muri, restano tre bossoli e sei ogive calibro 9 X 17, prodotti dalla casa ceca Seller & Bellot.

É la firma del delitto. A sparare è lo stesso gruppo, la stessa pistola che, il 20 maggio 1999, ha assassinato in via Salaria a Roma il professor Massimo D’ Antona. Lo dice la perizia balistica del Ris dei carabinieri. Mentre il commando fugge, le strade del Ghetto si riempiono di volanti, gazzelle, ambulanze. Di cronisti, fotografi, teleoperatori. Per lo strazio di una famiglia, Marina Orlandi, i due figli, che attendono poche rampe di scale più in alto di riunirsi al marito e al padre per la cena e che invece si accingono a prepararne il funerale nella vicina Chiesa di S.Martino.