Quale “unità”? I passi lenti e stentati della debole economia nel neonato Regno d’Italia

Pubblicato il 13 Maggio 2010 - 17:15| Aggiornato il 13 Marzo 2011 OLTRE 6 MESI FA

“Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”. La celebre frase pronunciata da Massimo D’Azeglio agli albori dell’Italia unita dimostra una visione quantomeno “ottimistica” del nostro Paese. Gli italiani impreparati a essere un popolo, infatti, erano solo una faccia dei problemi del post-unità, perché a dire la verità nel 1861 l’Italia non esisteva ancora. Non solo non era “fatta” ma era molto lontana dall’esserlo vista la sua estrema arretratezza. Il Paese “unito”, se così si può chiamare, zoppicava praticamente in ogni settore.

La stella della sua economia, insomma, non brillava affatto e la nazione non ci mise molto a dimostrare la sua netta inferiorità economica rispetto ai vicini europei. All’indomani dell’unificazione, infatti, l’Italia si presentava come un Paese totalmente squilibrato dal punto di vista sociale ed economico.

La “Questione Romana”, con la città di Roma ancora capitale dello Stato pontificio e più tardi quella “meridionale”, costituita dalla disastrosa situazione economica nel Mezzogiorno, si aggiungono così al problema principale con cui la classe politica era chiamata a confrontarsi: unificare culture consolidate ed economie diverse partendo da basi tutt’altro che solide.

Lo storico dell’economia Gino Luzzatto, nel libro “L’economia italiana dal 1861 al 1894”, pubblicato de Einaudi nel 1968 e ancor oggi validissimo ancorché esaurito da tempo, analizza la storia economica dell’Italia unita e scrive che “il nuovo Regno d’Italia inizia la sua vita in un periodo in cui i due maggiori stati dell’Europa occidentale, Inghilterra e Francia, manifestano nel modo più evidente i segni di una completa trasformazione e di una rapidissima espansione”.

Il divario con l’Italia è ogni giorno più grande così come il senso di sconfitta degli italiani e di chi aveva voluto l’unità del Paese si fa sempre più cocente.

Ancora Luzzatto: “La differenza fra la situazione dell’Italia e quella degli altri paesi dell’Occidente, anche di quelli immediatamente al di là delle Alpi è troppo profonda ed evidente, perché non appaia presto in tutta la sua gravità a chiunque esca dalla piccola cerchia della vita locale”. “La nazione resta immobile nella nicchia del suo passato, scrive l’economista Francesco Ferrara nel 1866, la scintilla del progresso non l’ha toccata. Il mondo d’intorno procede a passi concitati ma l’Italia “vede e ammira”, “non fa, non invidia”.

L’Italia del post-unità è ferma e lo è anche a livello demografico, basti pensare che la popolazione nel 1861 è pressappoco la stessa del Cinquecento. Un’immobilità triste che si rifletteva in uno stile di vita povero e monotono. Dal punto di vista economico, nel decennio precedente all’unità (1849-’59) le costruzioni ferroviarie avevano compiuto alcuni progressi ma nonostante la tanta propaganda non avevano colmato il gravissimo ritardo del Paese. Addirittura, riporta Luzzatto, “nel Regno di Napoli, che aveva anticipato gli altri stati italiani con le tratte Napoli-Caserta e Napoli-Portici, le costruzioni si erano completamente arrestate”.

Il problema più urgente era “completare e rafforzare l’opera dell’unità”. Quell’unità, cosi “rapidamente e miracolosamente raggiunta” in campo politico con la soppressione di quasi tutti gli stati in cui l’Italia era divisa e che “doveva essere integrata in tutti gli altri settori”, primo fra tutti il campo economico”, in cui esistevano troppe e gravi “divisioni derivanti dalla politica economica dei diversi stati, dalla tradizione, dai particolarismi”.

Per farlo, spiega lo storico, il nuovo Stato utilizzò due mezzi: la politica doganale e quella dei lavori pubblici, in particolare le costruzioni ferroviarie. Vennero costruiti così un migliaio di chilometri di strade e ferrovie che permisero almeno le comunicazioni e gli scambi tra Nord e Sud, di fatto completamente staccati al momento della proclamazione del Regno. Una costruzione abbastanza iniqua, però, se si pensa alla grande differenza tra il numero di strade e ferrovie nell’Italia settentrionale rispetto a quelle del meridione, una distribuzione che di certo non favoriva il sud.

Lo sviluppo in parte raggiunto nelle comunicazioni mancò del tutto nel settore della grande industria metallurgica e meccanica, fiore all’occhiello di Inghilterra e Francia, che possedevano ormai imprese capitalistiche. Durante la costruzione delle infrastrutture italiane, infatti, le imprese straniere che misero i capitali appaltarono all’estero la maggior parte dei lavori lasciando l’Italia in balia della sua arretratezza industriale.

Altra soluzione adottata dal Regno per “affrettare l’unificazione economica delle regioni”, spiega Luzzatto, fu la soppressione delle dogane interne. L’applicazione della nuova tariffa fu fatta però “di sorpresa, senza che le produzioni più colpite dalle riduzioni o dalla totale abolizione dei dazi protettivi avessero la possibilità di adattarsi al nuovo regime”. Ciò provocò in particolare nel Mezzogiorno il tramonto di parte di quell’industria locale faticosamente sopravvissuta all’unità.

Le cose non andavano meglio in agricoltura, dove alle difficoltà del terreno si sommava una tecnica molto arretrata, ma il vero punto debole restava l’industria. Ristrettezza del mercato e mentalità passatista non erano certamente un’ottima spinta propulsiva. L’azione dello Stato in quegli anni, secondo Luzzatto, si può dire dunque positiva “per ciò che riguarda la creazione di un mercato nazionale e per la spinta data alle opere pubbliche, in particolare al rapido sviluppo delle comunicazioni”, negativa invece per “l’inasprimento degli aggravi fiscali, per il fortissimo indebitamento, e per gli alti interessi che si sono dovuti pagare sui prestiti interni ed esteri”.

Nel triennio 1871-73 nascono comunque nuove imprese, alcune delle quali destinate a lunga vita. Tra queste la Società milanese produttrice “di oggetti in gomma” G. B. Pirelli, “creata nel 1872 con un capitale di sole 300.000 lire”. L’inferiorità italiana però era ancora molto evidente nel 1878, quando una nuova tariffa doganale inasprì fino al 20 per cento i dazi di entrata, assicurando agli industriali una piccola sebbene insufficiente barriera contro la concorrenza straniera.

Col tempo l’Italia inizia a camminare a stento, anche se si tratta di un percorso a due velocità. Risultato: il nord comincia a svegliarsi dal torpore con l’avvio dell’industria ma anche con una visione più capitalistica delle aziende agricole che ha nel Piemonte e nella Lombardia le regioni trainanti, mentre nel meridione prosegue l’agricoltura del latifondo gestita ancora in maniera feudale.

Una rassegna dei piccoli progressi compiuti in campo industriale giunge in parte  in occasione dell’Esposizione Nazionale di Milano del 1881, la prima almeno paragonabile alle manifestazioni che si tenevano all’estero. Con l’Expo nasce l’aspettativa, che verrà presto delusa, di un’Italia industriale.

Gli italiani, infatti, non va dimenticato, erano in tutto quasi 20 milioni e di questi circa il 60% era analfabeta. Il futuro e il progresso, ormai consolidato altrove, apparivano nel nostro Paese ancora troppo lontani.

L’ Italia era uno Stato indipendente da vent’anni, aveva completato la sua unità da dieci ed era un Paese ancora tutto da costruire, nel quale continuavano a esistere enormi sacche di arretratezza industriale e culturale. La attendeva un futuro incerto e debole, all’inseguimento delle economie  straniere che correvano sempre più veloci al suo fianco.