Erdogan mette il velo alla Turchia: i laici hanno paura. Papà scherza: “Chiamo mio figlio Erdogan”

di Edoardo Greco
Pubblicato il 20 Luglio 2016 - 13:55 OLTRE 6 MESI FA
Erdogan mette il velo alla Turchia: i laici hanno paura. Un saudita scherza: "Chiamo mio figlio Erdogan"

Ultrà pro Erdogan in piazza Taksim in una manifestazione anti-golpe, 19 luglio 2016
EPA/DENIZ TOPRAK

TURCHIA – Mentre Erdogan mette il “velo” alla Turchia cresce la paura della metà laica del Paese, quella larga fetta di oppositori che resta rintanata in casa, lasciando le strade di Istanbul ai caroselli degli “ultrà” di Erdogan, che sventolano bandiere turche come dopo una vittoria calcistica. Intanto nel mondo arabo, dal Libano al Pakistan, la figura di Erdogan acquista sempre più popolarità.

Lo testimonia la polemica seguita all’annuncio sui social network di un arabo-saudita, che voleva cambiare il nome del figlio da Rayan Al-Otaibi a Erdogan Al-Otaibi. L’uomo stava solo scherzando, ma l’eco avuto dalla notizia data dalla Saudi Gazette, in una regione – la penisola arabica – ostile a Erdogan, è il segnale del crescente “appeal” oltre confine del presidente turco.

Marco Ansaldo, inviato ad Istanbul su Repubblica, racconta la paura dei laici nella metropoli turca:

In auto quattro uomini barbuti apostrofano due ragazze che passeggiano sorridenti sulla discesa di Barbaros Bulvari, il boulevard del quartiere Besiktas, a Istanbul. “Questi sono gli ultimi bei giorni per voi – attacca il tipo a fianco del guidatore – tra poco metterete il velo come tutte!”. […]

Benvenuti nella Turchia sopravvissuta al golpe. Dove giorno e notte bande di esaltati percorrono le strade di Istanbul a clacson spianati come per una vittoria calcistica. Dove famiglie intere coi bambini in braccio indossano sul capo una fascia rossa con il nome del presidente conservatore islamico Recep Tayyip Erdogan. E dove donne velate con il niqab nero che le copre fino ai piedi fanno spuntare la mano per agitare la bandiera rossa con la mezzaluna al grido “Allah u Akhbar”, Dio è grande.

La faccenda del vessillo nazionale è il dettaglio più sorprendente. Da sempre i turchi, più che essere nazionalisti, sono molto patriottici e adorano la propria bandiera. Guai a chi la profana, a rischio della vita. Ma il pezzo di stoffa rossa, da quasi cento anni simbolico appannaggio dei laici che si richiamano al pensiero kemalista di Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, gli è ora stato letteralmente strappato dalle mani, per passare in quelle dei lealisti islamici. E adesso lo brandiscono felici, come per un tesoro conquistato.

Nella metà europea di Istanbul, nel centralissimo quartiere di Beyoglu (già Galata), i negozi e ristoranti sono chiusi. E la sera, dalla notte di venerdì 15 in cui è stato tentato il golpe c’è silenzio nelle vie dove rimbombava la musica, dove i turchi e i turisti bevevano rakı (liquore all’anice) e birra.

Ma dove sono tutti gli altri? I laici, i democratici, i liberali. Dov’è la Turchia scesa in Piazza Taksim e a Gezi Park. Sono tutti a casa, la testa fra le gambe. “Abbiamo paura a uscire – spiega Meltem, bella manager quarantenne, al lavoro la mattina in tailleur blu elettrico – il presidente ha ordinato ai suoi di presidiare le strade e le piazze, e allora è meglio non rischiare di cadere in provocazioni. Tutti sono molto emotivi, adesso. Potrebbe scatenarsi una guerra civile, facile che accada, ed è opportuno evitare ogni attrito. Possiamo solo sperare che la situazione cambi. Come? È una bella domanda. Non lo sappiamo davvero. Ma con le elezioni non è stato mai possibile. I media sono quasi tutti asserviti. Polizia e magistratura hanno paura. Nemmeno l’esercito è riuscito a fare il golpe. Sì, ci sentiamo proprio soli”.

Così i nuovi padroni imperversano e si sono impadroniti di Piazza Taksim, cuore della città. E, naturalmente, del Parco Gezi della famosa rivolta. Adesso innalzano colonne di fumo come per uno spettacolo musicale, urlano slogan al microfono, cantano fino alle 3 del mattino. Autobus e metro, per tutti, sono gratis, pur di presidiare le vie. Quando poi al mattino appare il leader, è un tripudio di bandierine in festa. Lui annuncia: “Se Dio vuole, come prima cosa costruiremo caserme a Taksim. Che lo vogliano o no”. In arrivo altre misure: la chiusura del Centro culturale di Ataturk, la costruzione dell’ennesima moschea. E Piazza Taksim e Gezi Park, simboli storici della laicità, possono languire nell’islamizzazione accelerata.

I numeri la evidenziano. Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, al potere dal 2002, ha conquistato alle ultime elezioni del 2015 più del 49 per cento dei voti. La metà del paese. Ma è soprattutto una rivoluzione sociale, quella in atto nella repubblica di Mustafa Kemal: oggi alle leve del comando sono gli anatolici, i cosiddetti “turchi neri” delle province più interne e lontane; mentre i “turchi bianchi” della costa, circassi, occhi azzurri, biondi come lo era Ataturk, stanno confinati ai margini dopo aver comandato per tutto il secolo scorso.

Lorenzo Cremonesi sul Corriere spiega i motivi economici della resistente popolarità di Erdogan in Turchia:

«Nel mondo si dimentica che almeno il 51 per cento di oltre 80 milioni di turchi sta con lui», ci racconta Hurichan Islamoglu, docente di storia economica all’Università del Bosforo. «E il segreto del suo successo resta soprattutto economico. In 13 anni Erdogan ha rivoluzionato il Paese. Ha creato una nuova classe media di ex contadini urbanizzati che lo adora. Lo posso paragonare alla Democrazia Cristiana italiana tra il 1950 e il 1980: era popolare perché aveva garantito il boom economico, non per il fatto che era cristiana. Il nostro reddito pro-capite medio è passato con lui da 2.000 dollari annuali a 11.000. Se non si comprende questo non si capisce come mai è sopravvissuto al golpe».