Libia: era diga, autobotte e cassa, ora per l’Italia è uno scatolone di guai

di Lucio Fero
Pubblicato il 22 Febbraio 2011 - 14:31 OLTRE 6 MESI FA

ROMA-Mentre Gheddafi continua a bombardare nel mucchio, insorti e popolazione civile per lui fa lo stesso, il governo di Roma ha perfino dovuto smentire che per Gheddafi ci fosse assistenza militare italiana. Ovviamente così non è, ma la “notizia” non è tanto la credibilissima smentita, la “notizia” è che qualcuno possa averlo pensato. Una balla maligna e infondata quella delle armi italiane al fianco del dittatore libico, ma una balla nata sullo stretto, troppo stretto e intimo rapporto tra l’Italia e Gheddafi. Nessuno a Roma è ancora riuscito a dire quel che il premier inglese Cameron ha detto: “Abbiamo sbagliato a sostenere il dittatore”. Nessuno ci è riuscito perché sono giorni e giorni che il governo di Roma è impegnato nella missione impossibile di salvare “capra e cavoli”, di tenersi pronti e in posizione sia che Gheddafi venga travolto sia che riesca a stroncare la rivolta nel sangue.

Seguire Berlusconi e il suo ministro degli esteri Frattini in questi giorni e in queste ore è seguire la rotta di un “bateau ivre”, di un vascello ubriaco che ondeggia di poppa, prua e timone. L’esordio del premier era stato di antologia: “Non telefono per non disturbare”. Poi il governo italiano virava ma non tanto: Frattini faceva l’elogio della non ingerenza e della “democrazia che non si esporta”. Lo faceva all’ingresso del vertice europeo, era lo stesso ministro che in tempi non lontani aveva fatto l’elogio della “democrazia da esportare” in Irak. Stava per cominciare la riunione e Frattini diceva: “Spero che in Libia si arrivi a una riconciliazione nazionale che porti ad una Costituzione libica come proposto da Seif al Islam”. E chi è questo Seif al Islam? Il figlio di Gheddafi che guida le milizie impegnate a sparare. Il vertice europeo imponeva altra virata: l’Italia condannava insieme a tutta l’Europa e quindi anche l’Italia si schierava con le “legittime aspirazioni del popolo libico”. Insomma, un’Italia diplomaticamente ubiqua, un po’ con Gheddafi e un po’ con i bombardati da Gheddafi.

Perché questo oscillare, anzi questo voler occupare tutte le caselle possibili? Un po’, solo un po’ perché questo è il metro, il segno e il calibro della politica italiana tutta e non solo quella estera: il dire e poi negare, il sostenere contemporaneamente il bianco e il nero, l’inseguire l’opportunità e la convenienza. Molto, molto di più perché la Libia, quella che quando era colonia gli italiani chiamavano “scatolone di sabbia”, è ora per l’Italia uno scatolone di guai. “Scatolone” per i confini tracciati geometricamente sul tavolo della divisione posto coloniale. “Di sabbia” perché altro non sembrava contenere quando era italiana. Poi, negli ultimi anni e decenni, la Libia è diventata per l’Italia autobotte e diga. Autobotte perché dalla Libia viene il 23 per cento del greggio importato dall’Italia. Per non parlare del gas: o quello libico o quello russo, per l’Italia terzo gas non c’è. E diga perché Gheddafi ci aveva venduto a caro prezzo il controllo, sulle sue coste e sulla sua terraferma, dei potenziali immigrati. Gheddafi li tratteneva lì e si faceva pagare il disturbo: cinque miliardi di euro la prima “parcella” in comode rate pluriennali.

Autobotte, diga e anche cassa. Dieci miliardi di euro gli scambi commerciali e industriali tra i due paesi. Gli appalti di Impregilo per l’autostrada costiera, gli appalti Finmeccanica per il controllo elettronico della frontiera sud della Libia, gli appalti per le ferrovie libiche. E i soldi libici nella cassa dell’Eni, un per cento del pacchetto azionario, e di Unicredit, 7,5 per cento. Poichè la Libia era ed è autobotte, diga e cassa, ancora nei giorni della rivolta egiziana e del crollo di Mubarak Frattini lodava la particolare democrazia libica fondata sui consigli di popolo. E tutti, non solo il governo, in Italia dimenticavano l’organizzazione e la fragilità di uno Stato fondato sulle tribù e si congratulavano con se stessi per aver Gheddafi socio in affari.

Adesso la Libia è diventata per l’Italia uno scatolone di guai. Comunque vada a finire arriverà per l’Italia pesante bolletta energetica. E contratti e appalti subiranno stop e ritardi, se non peggio. E la diga anti immigrati, se non verrà giù del tutto, sarà di sicuro sforata. Arriveranno eccome gli immigrati, la gente in fuga, i rifugiati. Prezzi “oggettivi” di una crisi più grande di noi. Cui si aggiungerà un prezzo “soggettivo”, un sovraccosto che ci siamo voluti, che abbiamo chiamato con la politica del “vascello ubriaco”. Se Gheddafi stroncherà la rivolta ci vorrà molto stomaco a stringergli di nuovo la mano. Se Gheddafi cadrà la nuova Libia dopo di lui guarderà con sospetto all’Italia prima nel fargli ieri festa e ultima oggi a mollarlo. Sì, davvero uno scatolone di guai che si è aperto e rovesciato non certo per italiana responsabilità. Però l’astuta Italia ci ha messo di suo sopra un fiocco.