Medio Oriente. Per Al Qaeda le rivolte democratiche sono una sconfitta strategica

di Licinio Germini
Pubblicato il 1 Marzo 2011 - 13:25 OLTRE 6 MESI FA

Scontri tra polizia e dimostranti in Libia

IL CAIRO, EGITTO – Per quasi vent’anni i leader di Al Qaeda hanno denunciato i dittatori del mondo arabo chiamandoli eretici, burattini dell’Occidente e sollecitando la loro caduta.

Ora, come dimostra quel che sta accadendo nella regione, in un Paese dopo l’altro la popolazione si è sollevata per cacciare i loro leader autocrati, ed è degno di nota che da questi sconvolgimenti Al Qaeda è rimasta completamente estranea.

Gli eterogenei movimenti di opposizione che sono apparsi tanto improvvisamente dimostrando la loro potenza hanno ignorato i due principi fondamentali del credo di Al Qaeda: violenza assassina e fanatismo religioso. I dimostranti in Medio Oriente hanno usato la forza in modo difensivo, hanno trattato l’Islam con distacco ed hanno scelto la democrazia, anatema per Al Qaeda e i suoi seguaci.

Pertanto, rileva il New York Times, per Al Qaeda – e forse anche per le politiche americane dirette a contenere la minaccia che rappresenta – le rivoluzioni democratiche che hanno tenuto il mondo col fiato in sospeso rappresentano un bivio. Il movimento terrorista si sfarinerà diventando irrilevante? O troverà il modo di approffittare del caos prodotto dalle rivolte e della delusione che inevitabilmente seguirà le grandi speranze deluse?

Secondo molti esperti di terrorismo mediorientale – ma non tutti – le scorse settimane sembrano aver determinato un disastro epocale per Al Qaeda, rendendo i jihadisti inefficaci spettatori dello svolgersi della storia, e offrendo ai giovani musulmani un’attraente alternativa al terrorismo. ‘

”Allo stato dei fatti, e ripeto, solo allo stato dei fatti, il punteggio per Al Qaeda è disastroso”, rileva Paul Pillar, ex-esperto di terrorismo della CIA ed ora docente alla Georgetown University di Washington. ”La democrazia non è una buona notizia per i terroristi, perchè più canali pacifici ha la gente per esprimere il suo malcontento, meno è incline a ricorrere alla violenza”.

Se Al Qaeda avesse avuto in mente di approfittare del caos, per ora non sembra che ci sia riuscita. Osama bin Laden tace, e il suo vice egiziano, Ayman al-Zawahri, ha rilasciato tre sconclusionate dichiarazioni, senza nemmeno menzionare la caduta del presidente egiziano Hosni Mubarak, che negli anni ottanta l’ha imprigionato e torturato.

”Rovesciare Mubarak è stato l’obiettivo di Zawahri per 20 anni senza riuscirci”, osserva Brian Fishman, esperto di terrorismo all’America Foundation, un think tank di Washington. ”Ora un movimento pro-democrazia non violento e non religioso lo ha cacciato nel giro di settimane. Per Al Qaeda è un grave smacco”.

Le rivoluzioni arabe non sono finite – basta guardare alla Libia – e lo sconvolgimento in atto potrebbe favorire la creazione di cellule terroristiche, almeno temporaneamente. Però secondo Steven Simon, membro dell’americano Council of Foreign Relations ”da un punto di vista generale gli sviluppi nei Paesi arabi rappresentano una sconfitta strategica per il jihadismo. Le rivolte hanno dimostrato che le nuove generazioni non sono molto interessate all’ideologia di Al Qaeda”.

Ma non tutti sono pronti a scommettere sul declino dell’organizzazione. Michael Scheuer, ex-capo del settore bin Laden della Cia, ritiene che molti americani, inclusi svariati esperti, hanno giudicato male le rivolte concentrando la loro attenzione su dimostranti laici, che parlano l’inglese e guardano le tv satellitari, mentre migliaia di islamici sono usciti di prigione solo in Egitto, e pensa che la caduta del nemico di Al Qaeda, Mubarak, rivitalizzerà ogni variante dell’Islam, inclusa quella di Al Qaeda e dei suoi alleati.

Se Al Qaeda si trova nell’incertezza, lo stesso dicasi per il governo americano, che per un decennio ha considerato il mondo islamico come una fonte di terrorismo, una delle ragioni per cui Washington era alleata con i governi autoritari ora assediati.

I vantaggi della cooperazione con tipi come Muammar Gheddafi e simili sono ora passati alla storia, un fatto che non è certo sfuggito alla CIA, al Dipartimernto di Stato ed alla Casa Bianca. Come durante l’adattamento alla caduta delle dittature comuniste dal 1989 al 1991, adesso i funzionari Usa studiano giorno per giorno quale dovrà essere il futuro della politica americana in Medio Oriente.

Osserva Christopher Boucek, esperto mediorientale al Carnegie Endowment for International Peace di Washington: ”Doppiamo ripensare a come gli Stati Uniti si porranno col mondo arabo, e chiarire che la nostra sicurezza non dipende più da governi dittatoriali e dalla mancanza di diritti umani delle loro popolazioni. Tutti i criteri che valevano prima sono saltati. Occorre ricominciare da zero”.