La Turchia al voto, Erdogan punta al 2023

Pubblicato il 12 Giugno 2011 - 11:44 OLTRE 6 MESI FA

Il premier turco Erdogan (Foto Lapresse)

ROMA – Un uomo venuto dal nulla che sta cambiando la Turchia forse quasi come il suo fondatore Kemal Ataturk e che pensa già a rimanere al potere fino al 2023, centenario della fondazione della Turchia, facendo perciò temere sviluppi autocratici: questa la parabola che biografi, analisti e in parte lui stesso nei suoi comizi tracciano di Recep Tayyip Erdogan, il premier turco che secondo tutti i sondaggi dovrebbe ottenere un terzo mandato consecutivo nelle elezioni parlamentari. I primi dati danno il suo partito al 56%.

E’ popolare (lo chiamano ”uomo del popolo” o ”papa Tayyip” e alcuni sondaggi attribuiscono al suo partito anche il 50% dei voti), è un vero ”animale politico” capace di improvvisi cambi di strategia e anche tribuno che evoca ”forze oscure” e golpiste al lavoro contro di lui o snocciola opere pubbliche senza disdegnare frasi in dialetto. Figlio di un capitano di nave sul Mar nero, Erdogan (si pronuncia Erdooan, senza la g), 57 anni, è immigrato da bambino in un quartiere popolare di Istanbul dove secondo l’iconografia avrebbe anche veduto focacce arrotolate e limonate per pagarsi la scuola religiosa islamica. Ha avuto buoni piedi da calciatore semi-professionista e pure un breve e nobile soggiorno in carcere quando era islamico militante e spadroneggiavano i generali laici e golpisti.

Il suo curriculum lo indica ex sindaco di Istanbul e figura di spicco del disciolto Partito del Benessere di ispirazione islamico-conservatrice come la formazione che guida, l’Akp, al potere con governi monocolore dal 2003 (dopo le elezioni di fine 2002). Si riconosce comunemente ad Erdogan di aver cambiato la Turchia in maniera profonda quasi come il suo fondatore, il mitico Ataturk: in otto anni c’è stato un epocale travaso di influenza dalle elite urbane occidentalizzanti ai musulmani osservanti dell’Anatolia profonda.

Un blocco di classi medie e popolari è con lui grazie ad un bilancio positivo di stabilità politica ed economica dopo decenni di coalizioni rissose, quattro golpe militari, bancarotte, inflazione anche al 30%. L’opposizione che lo contrasta, pur in crescita a sinistra, è disunita. Ora quella Turca è la 16esima economia al mondo che, pur con qualche squilibrio o eccentricità in fatto di partite correnti e politica monetaria, ha un pil in crescita a ritmi cinesi (+8,9% nel 2010) e triplicato in otto anni se lo si considera a livello pro capite.

L’inflazione l’anno scorso è stata del 6,4% ed il rapporto debito/Pil (41,6%) sotto la soglia di Maastrich. I comizi e le interviste tv di Erdogan sono un florilegio di tunnel scavati, ospedali funzionanti, migliaia di chilometri di strade costruite, linee per treni lanciati a 250 km all’ora sui cui il leader del principale partito di opposizione, Kemal Kilicdaroglu, evita di salire). E poi ci sono le promesse faraoniche e da lui stesso definite ”folli” come quella di spaccare Istanbul per scavare un canale parallelo al Bosforo dove far pendolare le petroliere ormai sempre imbottigliate.

O, ancora per questa megalopoli, la costruzione in zone meno sismiche di due città satellite da due milioni di persone in tutto. E poi mega progetti per Ankara e idee mediaticamente appetibili come gli studios cinematografici per una città depressa del sud-est, da trasformare in ”Mardinwood”. Il logo del piano di investimenti è ”2023” centenario della fondazione della Turchia da parte di Ataturk: suona anche come l’obiettivo di permanenza al potere che gli ascrivono i critici, definendo ”alla Putin” la prospettiva di un presidenzialismo che potrebbe nascere dalla riforma costituzionale per cui Erdogan ha chiesto voti durante tutta la campagna.