Usa: la grande battaglia sulla riforma sanitaria di Obama si avvicina alla fine

Pubblicato il 19 Marzo 2010 - 11:02 OLTRE 6 MESI FA

Il voto del Congresso sulla riforma sanitaria fortemente voluta da Obama potrebbe arrivare durante questo weekend e tutti i partecipanti alla battaglia, i favorevoli e i contrari, sono in fibrillazione. La posta in gioco è molto alta.

Proprio in queste ore una giovane associazione chiamata Americans for Stable Quality Care (ASQC) sta spendendo 6 milioni di dollari in pubblicità su giornali , tv e radio nei 38 distretti elettorali degli altrettanti deputati democratici dalle cui file potrebbero emergere quei cinque o sei “no” capaci di affondare la riforma e probabilmente Obama stesso. Se si guarda chi c’è dietro la Stable Quality Care tutta la storia della complicata riforma sanitaria sulla quale Obama ha deciso di giocare la propria presidenza appare meno confusa.

Se la riforma passa, Obama avrà fiato fino alle elezioni di medio termine, a Novembre, e poi saranno quelle a decidere, superabili se sarà come probabile e normale una sconfitta – in genere i presidenti perdono dopo due anni -, problematiche se sarà un disastro. Ma se la riforma non passa, Obama non potrà che trincerarsi di fatto alla Casa Bianca in attesa di tempi migliori, e l’America avrà un presidente azzoppato in uno dei momenti più delicati della sua storia. Basti pensare al cruciale dossier finanziario ben più importante di una parziale riforma sanitaria.

L’ ASQC è nata pochi mesi fa e per prima cosa ha speso ad agosto 12 milioni di dollari per sostenere la riforma sanitaria, che iniziava allora la discussione alla Camera. Dietro c’è metà dell’industria americana della sanità: i farmaceutici, la federazione degli ospedali privati, l’American medical association cioè i medici, e altro. Sono a favore della riforma.

E non è contro alla riforma l’altra metà dell’industria del settore, le compagnie di assicurazione che forniscono copertura a più di due terzi degli americani al costo medio di 10-12 mila dollari l’anno per una famiglia di quattro persone. La sua associazione di categoria, America’s Health Insurance Plans, insiste che occorre mettere i costi sotto controllo. E intanto molti suoi associati stanno aumentando le polizze, che sono aziendali soprattutto ma anche private, del 10-20 per cento.

Quindi, l’industria è per la riforma. Non lo è a maggioranza del pubblico. La media dei sondaggi pubblicata da quella che è ormai la Bibbia per questi rilevamenti, il sito Real clear politics, indica che il 41 per cento è a favore e quasi il 49 contro, con uno scarto di 7 punti e mezzo. Ed è così dal luglio 2009, quando i contorni della riforma diventavano chiari.

Il 60% degli americani sarebbe invece per la public option, un progetto che dall’inizio degli anni 2000 cresce fra le file democratiche e che il partito ha fatto proprio nella campagna del 2008: la possibilità per chi lo vuole di sottoscrivere una polizza pubblica, che calmieri il mercato, allinei i costi a quelli del Medicare, la copertura pubblica universale per gli over 65.

Le assicurazionmi private e l’intera industria sanitaria hanno sempre visto la public option come la peste perché sarebbe l’inizio della fine per l’attuale sanità americana che è per oltre i due terzi privata (solo Usa, Messico e Turchia non hanno fra i 30 paesi Ocse un sistema pubblico universale).

Un nocciolo di public option c’è nel testo approvato a novembre dalla Camera e manca da quello votato il 24 dicembre al Senato. Ora, usando complicate procedure, la Camera deve votare, a ore forse, e forse a giorni, sul testo del Senato. Obama dice in questi giorni che lui sarebbe per la public option ma al Senato non ci sono i 51 voti necessari.

La leadership democratica del Senato dice, come riporta il seguitissimo Huffington Post, che la maggioranza c’è se solo la leadership democratica della Camera inserisce una public option nel testo che ora deve votare. Nancy Pelosi, presidente della Camera e leader dei deputati democratici, dice che non può inserire ala public option perché al Senato non passerebbe.

E’ uno scaricabarile. E il primo a restare sempre ambiguo, a presentare la public option come una option ma non la sola via, è sempre stato Obama. Che a differenza di parte del suo elettorato si è sempre mosso nella convinzione che nulla si potesse fare senza un accordo con l’industria sanitaria.

E gli accordi ci sono stati, con i farmaceutici prima e con gli ospedalieri e gli altri poi, gestiti direttamente dalla Casa Bianca, garantiti da Obama stesso, e rivelati il 13 agosto da uno scoop dell’Huffington Post e da un articolo, più prudente ma chiarissimo, sulla prima pagina del New York Times. C’era il sì alla riforma da parte dell’industria, che collaborava impegnandosi a limitare l’aumento decennale dei costi, in cambio di varie cose, prima fra tutte una: nessuna public option.

Che resta della riforma? In poche parole, se passa ci saranno circa 30 milioni di americani fra i 47 che oggi non hanno nessuna copertura che avranno una polizza. Saranno obbligati ad acquistarne una – in campagna elettorale Obama disse che non lo avrebbe mai fatto – e aiutati a pagare il premio se a basso reddito. Le compagnie di assicurazione avranno più vincoli sulle prestazioni, ma non è mai facile vincolarle, l’esperienza insegna. E mille miliardi di dollari di polizze in più in dieci anni.

Critici aspri dell’amministrazione Obama come il Nobel Paul Krugman dicono che, nonostante tutto, sarebbe un passo avanti, per quei 30 milioni, ed è vero. Altri dicono che una finta riforma tarperebbe le ali per una generazione a una vera riforma, di cui la sanità americana che ha un costo di 7500 dollari circa all’anno a testa a fronte di una media Ocse di circa 3 mila, ha urgente bisogno.

Difficile scegliere. Certamente è un compromesso è non un passaggio storico della portata del medicare di Lyndon Johnson. Un compromesso al quale sono legate le sorti della presidenza Obama, che della riforma ha fatto il suo vessillo. Il presidente ha perfino rinviato un viaggio in Asia per essere presente nelle ultime ore della sfida.