Libia, il dilemma di Obama. Fare da spettatore o aiutare i ribelli?

di Licinio Germini
Pubblicato il 8 Aprile 2011 - 15:14 OLTRE 6 MESI FA

Postazione ribelle libica

WASHINGTON, STATI UNITI – Mentre il conflitto libico sembra essere arrivato ad un punto morto potenzialmente di lunga durata, il ricordo della richiesta del presidente Barack Obama al colonnello libico Muammar Gheddafi di abbandonare il potere – cioè, praticamente, di cambiare regime – sta alimentando un dibattito tra gli americani, al Congresso e sui media statunitensi incentrato sulla domanda: cosa farà, o dovrebbe fare, il presidente per influenzare l’esito dell’attuale, secondo molti insostenibile situazione?

Un numero crescente di funzionari governativi ed esperti di affari mediorientali stano giungendo alla conclusione che le soluzioni della crisi libica possono essere varie e più o meno controverse, ma che la peggiore di tutte sarebbe una lunga guerra nel bel mezzo di un Medio Oriente in tumulto. Chi la pensa in questo modo è assalito da forti dubbi sulla decisione del capo della Casa Bianca di più o meno estranearsi – o tentare di farlo – rispetto alle attività delle potenze internazionali coinvolte nel disastro libico.

Contemporaneamente al ritiro dei ribelli davanti alle forze di Gheddafi – nonostante i bombardamenti alleati che devono tener conto della popolazione civile e quindi sono meno efficaci di quanto non potrebbero essere – ed alla tenace ostinazione di Gheddafi di conservare il potere asserragliato nel suo bunker di Tripoli, un dibattito sta prendendo forma su che cosa, come e quando gli Stati Uniti dovrebbero fare per contribuire alla risoluzione della crisi.

C’è chi sostiene, probabilmente a ragione, che il presidente è sulla stessa linea della maggioranza degli americani che sosterrebbero l’idea di interventi umanitari, ma che diffidano di un maggior coinvolgimento degli Stati Uniti in Libia. Ma c’è anche chi rileva che il ruolo di leadership americana nel mondo richiede molto più di un atteggiamento di attendismo di fronte alle crisi, specialmente quando sono in gioco interessi nazionali.

Chi spara a palle incatenate contro Obama è il suo avversario alle presidenziali del 2008, l’influente senatore repubblicano John McCain, il quale va dicendo che ”se avessimo instaurato prima una no-fly zone, tre o quattro settimane fa, Gheddafi oggi non sarebbe ancora al potere”. Aggiunge il senatore: ”Non avendolo fatto, ed avendo ritirato l’incidenza dei bombardieri americani prima di aver vinto la battaglia, ora Obama deve trovare il sistema di armare i ribelli, magari attraverso intermediari”. Gli Stati Uniti dovrebbero inoltre riconoscere il consiglio transitorio degli insorti quale legittimo governo libico, come hanno fatto l’Italia e la Francia, sostiene McCain.

Le conseguenze umanitarie di un conflitto prolungato stanno spingendo certi esperti regionali a ritenere che Washington dovrebbe intraprendere un ruolo più attivo, anche se da dietro le quinte. ”Da un punto di vista libico, impelagando il Paese in una lunga crisi economica e politica e in un conflitto devastante per le aree popolate, il costo umanitario sarà più alto di quanto non sarebbe aiutando i ribelli con bombardamenti, forniture segrete di armi e addestramento”, sostiene Anthony Cordesman, esperto di sicurezza nazionale al Center for Strategic and International Studies di Washington.

C’è anche chi si chiede se sarebbe possibile trovare ”una via di mezzo” tra un cambio di regime e lo status quo. Ma replica Cordesman che gli Stati Uniti ed i loro alleati della Nato non possono apertamente adottare una strategia di ”cambio di regime” in Libia. Osserva però che, data l’alternativa di ”uno stallo instabile” in cui i civili potrebbero soffrire per mesi od anni, l’opzione migliore potrebbe essere quella che chiama ”una quieta, graduale escalation verso l’eliminazione di Gheddafi”.  Naturalmente Cordesman, ex-membro delle Forze Speciali e consigliere della Cia, non lo dice: ma quando parla di ”eliminazione”, nel lingo del suo ambiente si intendono tutte, ma proprio tutte, le forme di ”eliminazione”.

Questa opzione dovrebbe comunque necessariamente essere accompagnata dall’aumento dei bombardamenti, dal fornire armi ai ribelli, dall’inviare in Libia squadre di Forze Speciali americane col compito di comunicare con precisioni agli aerei alleati i punti nevralgici da colpire.

E si tornerebbe così al nodo centrale per Obama: inviare armi agli insorti, direttamente o indirettamente, dopo le pessime, analoghe esperienze avute in passato?  Tutto dipende dai rapporti dei servizi segreti Usa riguardo alle affiliziani politiche dei ribelli, ed in special modo se sono in qualche modo collegati ad Al Qaeda. Una volta avuti questi rapporti, Obama prenderà la sua decisione, in un senso o nell’altro.