Zucconi: “Il mio 11 settembre, cavallo stanco di un’America sconfitta”

di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 9 Settembre 2011 - 15:59| Aggiornato il 10 Settembre 2011 OLTRE 6 MESI FA
Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi ha prenotato una stanza agli ultimi piani nel grattacielo più vicino a Ground Zero, ma, nel decennale degli attentati dell’11 settembre 2001, non sa cosa vedrà affacciandosi dalla finestra. A uno dei più noti giornalisti italiani, non basta una prospettiva privilegiata – la distanza di un centinaio di metri e di una decina di anni – per riuscire a rispondere a tutte le domande sollevatesi con la polvere del crollo delle Torri Gemelle. Gli basta invece per individuare le contraddizioni di una nazione che ora è nei fatti sconfitta ma che allora, nella reazione a questo attacco senza precedenti, sembrò fortissima. E per riflettere su un evento che è stato il più importante del nostro tempo, ma la cui commemorazione suona di anno in anno sempre più insincera e stanca, costringendo a guardarsi indietro un popolo di pionieri abituato a guardare avanti. Un popolo incalzato oltretutto da preoccupazioni più concrete, fatto di gente che l’11 settembre si ferma anche a ricordare, ma che il 12 ha già il pensiero dello sceriffo che viene a bussare alla porta per pignorargli la casa.

In una lunga chiacchierata transatlantica con Blitz quotidiano Zucconi racconta e si lascia ascoltare, da bravo “Zio d’America”(che proprio il giorno degli attentati decise di iniziare le pratiche per diventare cittadino statunitense). Ma nelle sue parole c’è poco spazio per la memorialistica e molto invece per i ragionamenti sulle conseguenze del giorno più tremendamente “pop” del XXI secolo.

Iniziamo dalla domanda più classica: come ha vissuto il suo 11 settembre?
«L’ho vissuto con molta paura, perché il mio figlio maschio lavorava all’epoca in Campidoglio, in Parlamento. E realizzai molto in fretta che, dopo aver colpito le Torri Gemelle e il Pentagono, gli obiettivi successivi sarebbero stati la Casa Bianca e, per l’appunto, il Campidoglio. Cominciai a telefonare a Washington, dove io abito, praticamente sulla linea di volo che seguì l’aereo dell’American Airlines che andò a schiantarsi sul Pentagono. Dissero anche che ci poteva essere un quarto, un quinto e un sesto aereo: non ho avuto pace finché non capii che dopo il Boeing 757 caduto in Pennsylvania non ce ne sarebbero stati altri. Poi ebbi subito istintivamente un’altra paura: come avrebbe reagito l’America? Era una nazione guidata da un presidente debole, senza un vero mandato elettorale, che come tutti i presidenti deboli avrebbe potuto avere una reazione eccessiva. Quindi, più che paura fisica per me, fu paura per mio figlio e paura per quello che sarebbe successo nel mondo. La mia prima reazione fu che decisi quel giorno di avviare le pratiche per prendere la cittadinanza americana».

Fisicamente dov’era?
«Non ero nemmeno sul suolo americano. Io in realtà stavo dormendo e fui svegliato dal caposervizio di Repubblica: “Guarda che c’è un incidente aereo a Manhattan”. Accesi la tv».

Il secondo aereo si schianta sulla Torre Sud (Ap-Lapresse)

E vide che c’era la Torre Nord del World Trade Center in fiamme (foto), colpita probabilmente da un aereo. Fino al secondo schianto ci furono venti minuti per pensare a qualsiasi cosa.
«Ma io non pensai mai ad un incidente. Tante volte ero atterrato a New York e so che gli aerei non sorvolano Manhattan, ma girano intorno per andare in uno dei tre aeroporti, il Kennedy, il La Guardia o Newark. È così dal famoso incidente del 1945, quando il bombardiere B-25 Mitchell si schiantò sull’Empire State Building, uccidendo 14 persone. Non pensai mai a un incidente perché non poteva che trattarsi di un aereo di linea: un bimotore, un piccolo velivolo non avrebbe potuto fare quei danni, uno “sbrego del genere”. Poi, quando abbiamo visto il secondo aereo, è stato chiaro che era un attacco».

Era un attacco. Tutti si chiesero: chi era stato?
«Richard Clarke, responsabile dell’antiterrorismo, disse subito: “È un attentato ed è stata Al Qaeda”. Cosa che fece nascere subito sospetti: se erano così sicuri, perché non avevano fatto qualcosa per evitarlo? Invece all’inizio, noi “civili”, non è che pensassimo tanto ad Al Qaeda. E certamente non nei termini in cui è venuta fuori dopo, come una Spectre, una piovra internazionale. Si parlava invece molto di Iran: erano giorni di preoccupazioni sugli arsenali nucleari iraniani. Mentre non si parlava di Iraq. In ogni caso a nessuno sembrava un’ipotesi realistica quella di un attacco così coordinato e così forte che fosse stato ordito solo da fondamentalisti islamici, da jihadisti. Fummo veramente colti di sorpresa».

Tutti colti di sorpresa?
«No, non tutti. Ha detto una cosa molto interessante sempre Richard Clarke: “La sera stessa, tornando a Washington, alla Casa Bianca, quando con Bush facemmo tutte le riunioni di emergenza, il vicepresidente Dick Cheney mi chiese:
– Che obiettivi ci sono da colpire in Iraq?
Io gli risposi:  – Scusi, non ho capito, parla di obiettivi in Iraq?
E Cheney: – Sì, ci sono tantissimi obiettivi importanti da colpire in Iraq.
– Ce ne sono dappertutto di obiettivi importanti. Perché proprio in Iraq?”.
Avevano subito pensato che dietro agli attentatori ci fosse Saddam Hussein. Una cosa importante è la convinzione dei servizi segreti e della dirigenza americana che ci fosse comunque uno Stato dietro agli attacchi dell’11 settembre. Anche perché è più facile colpire uno Stato che un organizzazione terroristica ramificata, senza una capitale, amorfa. Fu un errore fondamentale».