Ahn Myung Chul a La Stampa: “Sono scappato a nuoto dal gulag coreano”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 9 Marzo 2014 - 07:45 OLTRE 6 MESI FA
“Io, guardia nei gulag di Kim vi racconto l’inferno coreano”

Ahn Myung Chul

ROMA – Si chiamano “Total control zone”, regioni inaccessibili dove si trovano i “kwalliso” nordcoreani, i campi di lavoro di massima sicurezza da dove nessuno, negli ultimi dieci anni, è mai uscito. Se non da morto.

Ahn Myung Chul racconta a La Stampa che cosa accade nei gulag del regime di Pyongyang.

Nessuna cinica scritta sui cancelli di ingresso, solo sbarre e recinzioni invalicabili. «Dentro l’inferno», spiega Ahn, guardia nei campi di prigionia tra il 1987 e il 1994. Il suo ultimo impiego nel kwalliso 22 a Hyeo-Ryoung, una delle Tcz appunto. «Mi occupavo della sorveglianza, dovevo fare in modo che nessuno tentasse di fuggire», ci spiega alla vigilia della sua testimonianza al recente summit di Ginevra organizzato dallo Un Human Rights Council. Nel campo 22 sono internati 50 mila prigionieri, messi dentro per due ragioni, la prima è aver parlato male del regime, la seconda essere parenti di chi ha parlato male del regime.

«Tutti possono finire dentro, anziani, donne e bambini compresi – continua -, basta essere tacciati di comportamenti anti-rivoluzionari». L’economia dei campi si basa sui lavori forzati, nelle zone agricole. Ci si alza alle cinque del mattino e si lavora sino alle dieci di sera. Nelle miniere si estrae carbone a rotazione di tre turni, mentre gli altri si occupano del cibo. Si mangia tre volte al giorno «ma su base meritocratica», chi lavora di meno può anche saltare i pasti, ovvero 200 grammi di cibarie a testa. «In sette anni – dice – ho visto morire oltre duemila persone per fame, esecuzioni, torture incidenti sui lavori forzati e malattie».

Le torture sono inflitte a chi tenta di scappare o a chi danneggia le strutture del gulag: «I torturati rimangono da tre a sei mesi nelle stanze del terrore, prigioni nelle prigioni dove vengono bastonati, sottoposti a “trattamento elettrico”». Poi ci sono le esecuzioni: «A finire davanti al plotone sono coloro che tentano di fuggire o chi fa morire una mucca». Non certo per motivi religiosi piuttosto perché è considerata lo strumento di produzione più importante per l’economia del Paese, farla morire, anche senza colpa, equivale a compiere un attentato ai danni dello Stato. La fucilazione avviene in pubblico per dare l’esempio: tre soldati per plotone, tre colpi ognuno, «per essere sicuri della riuscita».

Nel caso una detenuta rimanga incinta invece, dipende chi è il padre: se è un altro prigioniero c’è l’esecuzione di entrambi, se è una guardia, questa viene allontanata dal campo e la donna costretta ad abortire. Ci sono anche gli esperimenti come quelli dei nazisti: «Io non ne ho visto – spiega Ahn – ma miei colleghi me lo hanno confermato, erano sconvolti». Il lavoro nei gulag gli era stato offerto visto che il padre era un funzionario del governo e quindi faceva parte dell’élite: «Un privilegio che non potevo rifiutare». Ma quando il padre ha criticato le politiche di distribuzione del cibo di Pyongyan, il regime non ha esitato a internarlo e con lui tutta la famiglia. Così Ahn si è ritrovato prigioniero nello stesso Campo 22. Da lì è scappato attraversando il fiume Duman che separa la Corea del Nord dalla Cina: «Ho guadato per ore, è stato il momento in cui pensavo di morire».

E invece ce l’ha fatta e con l’aiuto di alcuni anziani di origini coreane si è rifugiato a Seul. Oggi lavora per un’organizzazione che si occupa dei sopravvissuti dei kwalliso, non ha notizie dei familiari e rivive quegli anni negli incubi delle tenebre (…)