Licenziamenti disciplnari, retromarcia di Renzi, effetto assunzioni a rischio

Pubblicato il 30 Settembre 2014 - 11:15| Aggiornato il 1 Ottobre 2014 OLTRE 6 MESI FA
Art. 18, retromarcia di Renzi sui disciplinari, effetto assunzioni a rischio

Matteo Renzi. La sua retromarcia sull’ Art. 18, sui licenziamenti disciplinari mette a rischio l’effetto positivo della riforma sulle assunzioni

ROMA – L’articolo 18 come cambierà, dopo l’apertura lanciata da Matteo Renzi lunedì ai vertici del Pd?  Proponiamo tre cronache dai giornali di martedì 30 settembre 2014, da  Sole 24 Ore., Messaggero di Roma e Repubblica.

Se lo scopo della modifica dell’art. 18 è quello di favorire le assunzioni, da quel che si legge non c’è da essere molto ottimisti.
La vera ragione per cui le aziende cercano di non assumere e arrivano a rinunciare a espandersi per evitare i rischi che avere più di 15 dipendenti comporta è quella di non riuscire a licenziare i fannulloni. Su questo tipo di licenziamenti è più facile che scattino buonismo e indulgenza italiani e anche certi riflessi condizionati di lotta di classe.
Oggi nemmeno le aziende editoriali, notoriamente tolleranti e soggette al ricatto sindacale per anni, possono permettersi la quota di fannulloni e piantagrane che storicamente si aggirava attorno al 10 per cento. Ma negli anni delle grandi tirature e del boom della pubblicità, i margini erano così alti che uno sciopero non conveniva.
Anche l’idea di tutele crescenti con l’anzianità aziendale e anagrafica appare un po’ nel verso contrario con le esigenze delle aziende, perché è con gli anni che si tende a diventare meno produttivi. Di qui la corretta impostazione di Renzi: permettere alle aziende di fare le aziende come in tutto il mondo, lasciare allo Stato la cura dei disoccupati. Fino a oggi, dai tempi di Mussolini passando per il post ’68, la tendenza è sempre stata quella di scaricare sulle aziende i carichi e gli obblighi dello Stato sociale.
Da quel che si legge qua sotto, c’è solo da sperare che la marcia indietro di Matteo Renzi sia solo tattica, affidando poi alla attuazione della delega il recupero della risposta alle esigenze di competitività.
Claudio Tucci sul Sole 24 Ore non la vede semplice e avverte:
“Se l’esigenza è la certezza del diritto per imprese e lavoratori, l’annuncio, ieri, di Matteo Renzi di voler mantenere il reintegro per i licenziamenti disciplinari rischia di non cogliere appieno l’obiettivo. Questo perché non ci si discosterebbe poi molto dalla legge Fornero e soprattutto non si supererebbe la discrezionalità dei giudici che potrebbero sempre interpretare le motivazioni di un licenziamento (e quindi non si potrebbe mai prevedere cosa succederà in caso di annullamento dell’atto di recesso).
Attualmente, infatti, dopo la legge 92, se il giudice annulla un licenziamento disciplinare possono scattare due diverse sanzioni: se il fatto non sussiste per nulla (ad esempio, il lavoratore non ha rubato il pc aziendale) oppure se è punito dal contratto collettivo di lavoro con sanzioni conservative, scatta il reintegro più un’indennità fino a 12 mesi; negli altri casi si paga solo un’indennità che può arrivare anche a 24 mesi.
Matteo Renzi starebbe pensando a una sorta di casistica delle ipotesi (una qualificazione delle fattispecie) in cui, nei licenziamenti disciplinari, resterebbe in piedi la tutela reale dell’articolo 18”.
Claudio Tucci cita il giuslavorista Giampiero Falasca secondo il quale la differenza con l’attuale normativa sarebbe minima:
“L’esperienza dimostra che le tipizzazioni sono chimere nel diritto del lavoro, quando si fissano regole diverse per casi simili prolifera sempre la discrezionalità . Una vera certezza applicativa pertanto si raggiungerebbe solo prevedendo la stessa sanzione per qualsiasi tipo di licenziamento illegittimo; se non si va in tale direzione, tanto vale mantenere la norma vigente, cercando di migliorare i testi dei contratti collettivi”.
Inoltre, nei licenziamenti disciplinari, secondo Roberto Pessi, professore di diritto del lavoro alla Luiss di Roma.
“c’è la valutazione del notevole inadempimento e ciò lascia al giudice la più totale discrezionalità, che è il limite di oggi della legge Fornero”.
Prima della legge 92, ricorda Claudio Tucci,
il vecchio articolo 18 dello Statuto dei lavoratori prevedeva una sola sanzione in caso di licenziamento intimato in violazione dei limiti di legge: il reintegro nel posto di lavoro e il risarcimento del danno in misura pari alle mensilità dal licenziamento al reintegro, con il minimo di cinque.
Per il giudice si trattava di una scelta obbligata (solo il lavoratore poteva convertire il reintegro in un indennizzo monetario).
La legge Fornero ha previsto una gradazione delle sanzioni, marginalizzando la tutela reale. Ma ha avuto il grande difetto di essere tecnicamente molto complessa e troppo interpretabile.
Oggi infatti l’articolo 18 prevede una serie di opzioni: in caso di licenziamento discriminatorio (reintegro più risarcimento integrale), in caso di disciplinare (le due opzioni viste prima, reintegro o indennizzo), in caso di licenziamento economico (motivo oggettivo) solo indennità fino a 24 mesi, ma reintegro più indennità se il motivo economico è “manifestamente insussistente”, nei licenziamenti collettivi, poi, se si violano i criteri di scelta: reintegro più risarcimento, negli altri casi solo indennità.
Dalle parole di Matteo Renzi sembrerebbe non cambiare nulla per i licenziamenti discriminatori (quelli cioè intimati per ragioni politiche, sindacali, di genere, di credo religioso), con la reintegra piena, così come del resto è previsto in tutta Europa.
La tutela reale, come detto, resterebbe anche per i licenziamenti disciplinari. Verrebbe invece meno solo per gli economici (già qui, peraltro, è stata fortemente limitata dalla legge 92).
Certo, resta da vedere cosa verrà poi scritto nei decreti delegati. Ma se la cornice resta questa, le novità sull’articolo 18 sarebbero poche. Peraltro, non è stato ancora chiarito se la tutela reale venga meno (come chiedono le imprese) anche per i licenziamenti collettivi (che purtroppo interessano l’industria).
Sui licenziamenti discriminatori un possibile punto di compromesso lo avanza il giuslavorista di Sc, Pietro Ichino: «Si potrebbe conservare la reintegra per il caso di totale insussistenza della condotta denunciata, consentendo a entrambe le parti di optare per l’indennità risarcitoria sostitutiva della tutela reale».
Oggi tale opzione è ammessa solo per il lavoratore, entro i limiti delle 15 mensilità”.
Sul Messaggero Giusy Franzese:
“Il diritto al reintegro sul posto di lavoro rimarrà per i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare. Scomparirà per i motivi economici. Sarà questo il nuovo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori dopo la riforma Renzi. Non è un cambiamento rivoluzionario, ma una nuova manutenzione straordinaria alla disciplina dei licenziamenti individuali già “ristrutturata” due anni fa, nel 2012, dall’allora governo Monti con il ministro Fornero.
Nel dibattito in direzione Pd non sono emersi completamente tutti i dettagli. Che dovranno essere meglio specificati negli emendamenti alla delega attualmente all’esame dell’aula del Senato e poi ancora nei decreti attuativi. Restano quindi dei punti interrogativi: quale sarà la platea dei lavoratori interessati dalle modifiche, solo i neoassunti o anche chi attualmente ha già un lavoro? Il diritto reale del reintegro, seppur limitato a sole due fattispecie, resterà invariato dal primo momento dell’assunzione o scatterà solo dopo un periodo di sospensione di 3-4 anni? Ricordiamo che la delega così come approvata in commissione Lavoro del Senato, non parla mai esplicitamente di riforma dell’articolo 18, ma lo fa indirettamente introducendo il contratto a tutele crescenti per i nuovi assunti come tipologia sostitutiva del contratto a tempo indeterminato. Le tutele crescenti sono riferite proprio alla disciplina del recesso. Anche adesso i dettagli (quali tutele? solo indennizzo o anche reintegro? crescenti come?) sono rinviati alla messa a punto dei decreti delegati.
Il passo in avanti è l’aver esplicitato quali saranno i casi di licenziamento individuale illegittimo che resteranno coperti dalle tutele dell’articolo 18. Non solo più quello discriminatorio, che il governo ha sempre detto di non voler toccare, ma anche quello disciplinare.
Dalla riforma Fornero del 2012, i licenziamenti individuali motivati con ragioni disciplinari (il caso più eclatante è quello di un lavoratore accusato di furto), se giudicati illegittimi dal giudice, possono essere sanzionati in due modi diversi a seconda della gravità: solo indennizzo compreso tra 12 e 24 mesi, oppure anche il reintegro.
Questa tutela però scatta se viene dimostrata l’insussistenza del fatto che ha dato luogo al licenziamento (accusa falsa) e se il contratto collettivo già prevede di punire quello stesso illecito di cui è accusato il lavoratore con una sanzione disciplinare conservativa (quindi senza licenziamento).
Solo in questi due casi il giudice può decidere che al lavoratore spetti anche il reintegro sul posto di lavoro, oltre ad un indennizzo che può arrivare fino a un anno di retribuzione.
Altrimenti il licenziamento, ancorché illegittimo, può essere sanzionato con il solo indennizzo. In questi due anni di applicazione della norma, però, molti imprenditori hanno lamentato eccessiva discrezionalità da parte della magistratura. Ed è forse per questo motivo che sia il premier Renzi che il ministro del Welfare Poletti hanno tenuto a precisare che il licenziamento disciplinare «dovrà avere confini più definiti». Sarà circoscritta la discrezionalità del giudice. Anche Pierluigi Bersani ammette: «L’attuale sistema è farraginoso, miglioriamolo».
I licenziamenti definiti «per giustificato motivo oggettivo», cioè quando l’azienda ha problemi nei bilanci dovuti a crisi di mercato e a gap di competitività (vendite o ricavi in calo, ecc), attualmente, se illegittimi, sono sanzionati solo con l’indennizzo tra 12 e 24 mesi.
È stata questa la più rilevante modifica della riforma Fornero. Il reintegro può esser disposto dal giudice solo nei casi (abbastanza rari) di «manifesta insussistenza» (lavoratore licenziato per motivi economici e poco dopo sostituito con un altro, bilanci floridi, ecc.). Per questo motivo l’ex ministro Elsa Fornero giudica la portata delle nuove modifiche all’articolo 18 annunciate da Renzi pari a zero: «Non cambia nulla» sentenzia”.
Su Repubblica Roberto Mania riferisce:
“Si profila un mini-ritocco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Oltre al reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento discriminatorio (che il governo non ha mai messo in discussione), sarà previsto pure per i licenziamenti disciplinari senza giustificato motivo. È la novità che ha annunciato ieri il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. L’obiettivo del governo in ogni caso resta quello di ridurre il più possibile la discrezionalità del giudice nei procedimenti. Proprio l’incertezza del comportamento dei magistrati di fronte a fattispecie identiche sarebbe — secondo l’esecutivo — il principale fattore di freno degli investimenti (italiani o esteri) destinati a generare nuova occupazione.
Molto dipenderà, dunque, da come la norma sarà scritta dal governo nei decreti attuativi della delega lavoro (il Jobs Act) per ora all’esame del Senato. Certo sembra possibile che l’impianto generale possa restare quello della legge Fornero. A prevederlo è stata ieri lo stesso ex ministro del Lavoro: «Non cambia nulla», ha detto Elsa Fornero. «Abbiamo già tolto al giudice — ha aggiunto — la possibilità di reintegrare in caso di licenziamento per motivi economici. L’apertura del premier, Matteo Renzi, sui licenziamenti disciplinari apre la strada a lasciare le cose come stanno dopo la nostra modifica all’articolo 18», ha concluso.
Provando a fare un po’ d’ordine, la possibilità di reintegro nel posto di lavoro dopo aver subìto un licenziamento senza giustificato motivo resterebbe in due casi: nel caso di licenziamento discriminatorio e in quello disciplinare. Non ci sarebbe più il terzo caso, previsto dalla legge Fornero, ossia la reintegra decisa dal giudice nel caso di licenziamento economico «manifestamente infondato», insomma quando vengano presentate motivazioni economiche solo per mascherare un licenziamento dovuto ad altre ragioni. Da quel che si capisce in questo caso scatterebbe un indennizzo monetario.
Non dovrebbe subire interventi la parte dell’articolo 18 riguardante il licenziamento discriminatorio, cioè quello provocato da ragioni politiche, religiose. Oppure dall’appartenenza a un sindacato o dalla partecipazione a uno sciopero. O, ancora, dal sesso o dall’età. O quelli decisi durante il matrimonio, la maternità e la paternità. In tutti questi casi di licenziamento spetta al giudice dichiararne la nullità e dunque determinare la condizione precedente, cioè la reintegrazione nel posto di lavoro, con il pagamento di tutte le eventuali mensilità non corrisposte.
Per i licenziamenti disciplinari l’attuale normativa prevede il reintegro nel posto di lavoro anche con il pagamento di un risarcimento massimo di un anno di mensilità, quando il giudice accerti che il fatto non sussiste o perché il fatto può essere sanzionato in altro modo. In alter- nativa alla reintegra il giudice può stabilire il pagamento di un indennizzo pari a due anni di mensilità. Probabilmente il governo interverrà con una semplificazione delle procedure, riducendo (ma non sarà semplice) il ruolo del giudice e “tipizzando” il più possibile le fattispecie”.