Carlo Tavecchio, Optì Poba e la Repubblica delle banane. Piero Mei su Repubblica

di Redazione Blitz
Pubblicato il 28 Luglio 2014 - 07:48 OLTRE 6 MESI FA
Carlo Tavecchio, Optì Poba e la Repubblica delle banane. Piero Mei su Repubblica

Carlo Tavecchio, Optì Poba e la Repubblica delle banane. Piero Mei su Repubblica

ROMA – Il danno oramai è fatto. Dopo la sparata sui “mangiabanane” Carlo Tavecchio non è più presentabile, non ci sono scuse o precisazioni che tengano. Non lo è perché la sortita è stata troppo infelice e troppo carica di conseguenze per venir dimenticata. Tavecchio ha suo malgrado creato un personaggio, il mangiatore di banane Optì Pobà che di sicuro farà capolino in striscioni e cori dei tifosi. E il vero responsabile di tutto questo è lui.

Piero Mei, su Repubblica, analizza in modo lucido e feroce la posizione di Tavecchio dopo l’uscita all’assemblea dilettanti. 

Optì Pobà con la maglia della Lazio ha già un gruppo di fans su Facebook. Optì Pobà non esiste e non è neppure lo sfottò di un Pasquino giallorosso dopo l’affaire Astori. Optì Pobà è il nome inventato dal candidato numero uno alla presidenza italiana del calcio, quello che ha la maggioranza blindata, quello per il quale si sono preventivamente pronunciate le maggiori componenti del settore, quello che rappresenterebbe la Grande Coalizione, il leader trasversale, il (Ta)vecchio inciucio d’altri tempi (altri?). Il padre di Optì Pobà è Carlo Tavecchio che ha evocato la sua creatura nel discorso di programma etichettando il povero Optì di “mangiatore di banane che poi viene in Italia e gioca al calcio” mica come in Inghilterra dove guardano la professionalità, “il pedigrée” come per un cavallo.

Purtroppo per lui, Tavecchio non faceva riferimento ai nutrizionisti che consigliano la banana ai consumatori di energie. Era, semplice e drammatico insieme, una descrizione che puzza di razzismo. Come quella famosa (e anche famigerata) discriminazione territoriale per la quale nei tempi più recenti del campionato e delle coppe sono stati chiusi in sequenza interi settori degli stadi italiani, punendo il colpevole e l’innocente, perché il governo del calcio non va per il sottile della responsabilità personale e “a chi la tocca la tocca”, per dirla come la peste manzoniana.

Perché il calcio dice No al razzismo; i capitani delle squadre lo professano ai microfoni; le t-shirt propongono adeguate scritte; striscioni vengono autorizzati ed esposti al centro del campo, perché noi che lo governiamo siamo bravi e buoni. Il governo del calcio: Tavecchio ne è stato vicepresidente finora e, secondo i sondaggi e la conta dei voti preventiva, molto meno a rischio di errore delle elezioni politiche, l’11 agosto potrebbe avere dalla sua la maggioranza dei Grandi Elettori (o piuttosto elettori grandi: di potere).

E pensare che proprio dal calcio dei giocatori venne la più brillante iniziativa contro i ritardati del razzismo: Dani Alves del Barcellona fu raggiunto da una banana sul vertice del corner e, senza scomporsi, la sbucciò e la mangiò. Seguì la bella campagna web, dicono pilotata ma ugualmente bella, lanciata da Neymar, “somostodosmacacos”, siamo tutte scimmie, con mangiatori di banane sfusi: anche il premier Renzi con l’allora cittì Prandelli si fecero il selfie bananero.

E Prandelli rappresentava mica il Galatasaray di adesso, ma la Federazione di cui Tavecchio era (ed è per poco ancora) vicepresidente. C’è un provvedimento ad personam che, talvolta sbrigativamente, viene adottato per chi si esprime con fondamentali razzisti nel calcio: si chiama Daspo e vieta per un po’ l’accesso alle manifestazioni sportive, figurarsi al governo di queste.

E se al Tavecchio che avanza, che ha detto “scusate, ogni tanto mi scappa”, gli scappasse di autoproporsi per un Daspo non da seggiolino dello stadio ma da poltrona presidenziale? C’è chi scivola su una buccia di banana, chi su una banana intera. E quando in uno stadio comparirà (perché comparirà…) uno striscione inneggiante a Optì Pobà a chi verrà dato il Daspo, agli sbandieratori o al papà del prode inventato calciatore? Prevenire è sempre assai meglio che reprimere.