Clan Gionta, un affiliato si racconta: “La mia vita da camorrista tra carcere e mitra”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 17 Novembre 2014 - 13:13 OLTRE 6 MESI FA
L'articolo della Stampa

L’articolo della Stampa

ROMA – “Quando lo conobbi – scrive Guido Ruotolo della Stampa – non ebbe timore a raccontare quella stagione che non c’è più, quando nella tenuta di Vallesana, a casa del boss Nuvoletta, si incontravano, negli Anni 80, Riina e Brusca. O delle missioni a Mazara, da Matteo Messina Denaro, per affari, per dirottare il pescato della flotta mazarese al mercato ittico di Torre Annunziata controllato dal clan”.

L’articolo  completo:

O – anche se per negare che il clan fosse il responsabile – dell’omicidio di Giancarlo Siani. Finito anche lui in carcere per associazione mafiosa nella retata per l’omicidio del giornalista del Mattino.

Fa un certo effetto conoscere un mafioso che non è pentito né dissociato, che si presenta per quello che è. All’indomani della sentenza sulle minacce alla giornalista Rosaria Capacchione e allo scrittore Roberto Saviano si è rifatto vivo: «I Casalesi sono finiti. Noi siamo finiti». Nella sua casa di Torre Annunziata ha accettato che prendessi appunti: «Se potessi non rifarei questa vita. Oggi che il clan non c’è più vedo che cercano di occupare il territorio ragazzi che chiedono l’estorsione di 50 o di 100 euro, ragazzi che si sono formati guardando i film in televisione».
Antonio (nome di fantasia) sicuramente ha ricoperto un ruolo importante nel clan Gionta ed è stato affiliato con il rito di Cosa Nostra: «Ero un ragazzo di 18 anni, nel 1982. La cerimonia avvenne nella tenuta di Vallesana, a Marano, di don Lorenzo Nuvoletta. A quei tempi eravamo alleati. E mi diedero l’immagine di Santa Rosalia in mano. Ernesto Gionta, fratello di Valentino, mi fece da padrino di battesimo, e presenti alla punciuta furono anche i Corleonesi Leoluca Bagarella e suo cognato Giuseppe Marchese, che poi si pentì. Mica tutti potevano affiliarsi alla tenuta di Vallesana. Era un privilegio per pochi».
Solo 18 anni. Ma come è possibile? «Come si dice? Le persone venivano collaudate. Dovevi iniziare con un furto di motorino, con una mezza rapina e poi dovevi provare il carcere. Insomma, alla fine dell’esame sapevi se eri stato promosso. E io passai».
A Sud spesso si nasce già adulti. Il padre di Antonio una vita in fabbrica. Due fratelli anche loro lavoratori, uno autista in una ditta di trasporti, l’altro bidello in una scuola elementare. A 13 anni, Antonio portava a casa 30 mila vecchie lire (14 euro di oggi) a settimana, facendo il garzone in un bar, poi è finito in un deposito di sfasciacarrozze ferroviarie.
«A 15 anni seminavo la Finanza con un furgoncino 850 carico di 10–15 casse di sigarette (ogni cassa conteneva 50 stecche di “bionde”, ndr) . Quelli sì che erano soldi, 200 mila lire a settimana più le venti stecche che ci davano per dieci viaggi». Ma come era finito, Antonio, a lavorare nel contrabbando di sigarette? «I nipoti del titolare della impresa di rottamazione erano i fratelli Immobile, gli zii di Ciro (l’attaccante della Nazionale e del Borussia Dortmund,ndr), i numeri uno del contrabbando di sigarette. Avevano una flotta di scafi blu imponente. Era loro quell’Abbate 450 prestato a Mario Merola per il film. E gli Immobile mi fecero lavorare come autista che dal porto di Torre Annunziata trasferiva le casse di sigarette nei depositi».
Erano gli inizi degli anni Ottanta. Anni terribili, con Raffaele Cutolo che voleva colonizzare Napoli, che chiedeva il pizzo ai contrabbandieri per ogni cassa di sigarette trasportata. E gli altri clan che lo contrastavano. Furono migliaia i morti ammazzati. E quando gli scafi blu si trasferirono in Puglia, gli Immobile diventarono imprenditori e Valentino Gionta assunse prepotentemente il controllo del traffico.
«Senza scafi, la nave madre sbarcava direttamente sulla costa. In provincia di Salerno, all’altezza di Paestum. Si formava un cordone umano dalla stessa stiva della nave alla spiaggia. E le mille casse venivano trasferite sui tir. Per ogni scarico ci pagavano 50 mila lire. E c’erano liste di persone che si offrivano per questo lavoro. Anche autisti dei mezzi pubblici che volevano arrotondare la paga. Valentino Gionta ha sempre fatto del bene a tutti. Non voleva la droga, si occupava di carni, mercato del pesce e sigarette».
Antonio ci porta a visitare Palazzo Fiengo, quadrilatero delle carceri, il regno del clan. Ci abitavano 54 famiglie, quasi tutte affiliate alla camorra. E lo stesso Valentino Gionta, al secondo piano. Oggi appare un bunker deserto, disabitato. Un maniero fatiscente, in procinto di crollare. Nel cortile, una decina di auto. Una tromba di scale con archi. Rovine di intonaci. Ma gli appartamenti sono regge. Strano il deserto, il silenzio. Gli inquilini sono in gran parte detenuti, spesso anche le famiglie, mogli e figli sono in carcere.
Da Palazzo Fiengo saranno duecento metri, bar «La caffetteria», via San Francesco di Paola. Era il «Circolo dei pescatori». «C’ero anch’io, quel giorno. Era agosto, il 26, Sant’Alessandro, intorno a mezzogiorno. Avevamo avuto la soffiata che il clan Bardellino quel giorno sarebbe venuto a farci fuori. Eravamo pronti ad aspettarli. Ma per un contrattempo ritardarono e noi andammo al mercato del pesce a fare acquisti. Sentimmo da lontano le mitragliate. Otto morti e sette feriti. I killer, una quindicina arrivarono su un pullman con la scritta “giro turistico”».
Il cartello anticutoliano si era dissolto. Alfieri e Bardellino erano alleati contro Nuvoletta, Gionta, D’Alessandro. «Tentammo di fare pace dopo l’omicidio di Ciro Nuvoletta, durante l’assalto alla tenuta Vallesana. Ma Lorenzo Nuvoletta voleva che gli consegnassimo cento persone. Erano altri tempi. Oggi si pentono anche gli ultimi Casalesi e ne vedremo delle belle».