Fiducia, resa di Berlusconi; Champions League: rassegna stampa e prime pagine

di Redazione Blitz
Pubblicato il 3 Ottobre 2013 - 09:15 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte. Il Corriere della Sera: “Il governo Letta ottiene la fiducia al Senato con l’inatteso sì di Silvio Berlusconi che si arrende per la prima volta alle colombe del suo partito guidate dal segretario Alfano.”

E Berlusconi tradì Silvio. Il giorno del travaglio. L’articolo a firma di Gian Antonio Stella:

“L’ombra del «Re Sole», quello che per Claudio Scajola era così luminoso «che tutti gli si facevano intorno per potersi scaldare», vive quello che pare essere il suo crepuscolo con lo sguardo impietrito e la mascella serrata. Non è così che aveva sognato l’uscita di scena. Non con un umiliante rattoppo doroteo cucito sullo strappo che aveva deciso con irruenza baldanzosa.

E potete scommettere che tutti quei sorrisi di comprensione, quelle spagnolesche cortesie, quei sospiri di solidarietà, gli danno più fastidio che un calcio in bocca. Perdere va bene, ma così! Così no! Dopo essere sceso in campo giurando di voler distruggere «il teatrino della politica» come può accettare il tira e molla che gli viene imposto (a lui, Gallo Supremo!) da quei galletti che per anni gli avevano pigolato intorno?

È già nero quando arriva a Palazzo Madama, l’ex Cavaliere Azzurro. Dopo i famosi «55 giorni di insonnia» ha passato un’altra brutta notte. Agitata forse da quel richiamo all’appuntamento fatale in Senato come Cesare coi congiurati. Angelino Alfano, che lui aveva adottato come un figlio, lo ha implorato fino all’ultimo di cambiare idea sulla sfiducia giurandogli che nessuno voleva far la parte di Bruto. Ma vai a sapere… E tutti gli altri? «Sono stato come la fata Smemorina di Cenerentola: erano delle zucche e li ho trasformati in principi». Traditori…

Sono le dieci meno cinque, quando arriva. Ha il passo affaticato. Si appoggia alla parete della balconata che regge la presidenza. Un lungo sguardo su e giù, su e giù sui banchi della destra della quale per vent’anni è stato il dominus. Chi c’è? Chi manca? Va a sedersi in terza fila all’estrema destra, quasi volesse marcare: ecco, è qui che mi vorreste schiacciare. Pianta il gomito sul leggio e adagia la guancia nel cavo della mano. Il nipote del suo consigliere più antico e più fedele, quell’Enrico Letta dal quale si sente pugnalato, parla già da una ventina di minuti.”

La notte insonne, poi la giornata «storica». Obiettivo 2015 nel nuovo patto di Letta. L’articolo a firma di Monica Guerzoni:

“La determinazione sarà la stessa dei primi cinque mesi, ma adesso che il suo governo è sostenuto da una maggioranza libera dai ricatti, Enrico Letta promette «un pochino di spinta e di cuore in più». Forte di un «nuovo patto politico» giura che mai scadrà su soluzioni di basso profilo, rilancia l’agenda delle riforme e guarda dritto al 2015. Il premier lo dice alla Camera, chiudendo un discorso più breve e intenso di quello del Senato. Richiama il durissimo monito di Napolitano il giorno in cui accettò il secondo mandato e marca a braccio, con tutta la nettezza possibile, la distanza tra l’esecutivo e il destino giudiziario di Berlusconi. «Riprendiamo il filo, a patto che il risultato del voto sia come lo intendo io…». Ed è qui che strappa i «bravo!» e le ovazioni del suo partito.

Era questo, per il premier, il rischio più grande. Incassare la fiducia dell’intero Pdl ma ripartire con un governo debole, prigioniero «delle minacce e degli ultimatum». Un pericolo che ora sente di avere scongiurato: «Questa maggioranza politica coesa è diversa dalla maggioranza numerica». È il passaggio chiave, con cui Letta neutralizza i falchi mettendo a verbale, con una punta di orgoglio, che «la maggioranza ci sarebbe stata comunque». Anche senza i voti di Berlusconi.

Ma adesso l’inquilino di Palazzo Chigi sa bene che il suo governo deve ripartire a razzo se vuole battere la crisi e tutti coloro che, come Renzi, gli rimproverano di guidare l’esecutivo dei rinvii. «D’ora in avanti si cambia passo», assicura. Accelera sulla riforma costituzionale e sulla legge elettorale, perché «il Porcellum è il male assoluto». Tema esplosivo, sul quale si innesca un momento di tensione nel Pd quando il premier alla Camera annovera Roberto Giachetti tra coloro che, invece di lavorare alle necessarie mediazioni, preferiscono «piantare bandierine». Il vicepresidente democratico, che aveva presentato una mozione sul ritorno al Mattarellum, imbocca la porta dell’Aula in segno di protesta e si sfoga su Twitter, «il dente batte dove la lingua duole». Ecco, il «nuovo» e più battagliero Letta ha deciso in cuor suo di non fare sconti, perché «gli italiani non ne possono più di sangue e arena». Basta dipingere i risultati del governo «con il colore nero» ,avverte, ed elenca tutto ciò che ha fatto per abbassare la spesa e battere la disoccupazione. Pur di ottenere chiarezza e sventare una fine «fatale per l’Italia», ricorda come si sia assunto il rischio di «cadere in piedi», affrontando una drammatica conta: «Basta risse, e se non daremo risposte agli italiani, sarò il primo a tirare le conseguenze»”.

Sì alla fiducia, la vittoria dei «ribelli». E alla fine il governo si ritrova più voti. L’articolo a firma di Dino Martirano:

Sono le 13.30 quando Silvio Berlusconi si esibisce nell’aula del Senato in un triplo salto carpiato che lascia senza parole più di mezzo emiciclo: «Abbiamo deciso di esprimere il voto di fiducia a questo governo….». Il Cavaliere ci mette meno di 4 minuti a motivare la sua mossa tattica che, come un colpo di spugna, sterilizza per il momento i piani di chi sognava un governo deberlusconizzato e sorretto finalmente anche dall’embrione di un nuovo partito dei moderati italiani. Quel sì a Letta detto con i denti stretti e con il volto scuro, dunque, annacqua il risultato della nuova maggioranza politica che, appena pochi minuti prima, riteneva di veleggiare al Senato verso l’autosufficienza (seppure risicata) con i voti del Pd (107), di Scelta civica 20 (compreso Monti), degli autonomisti (10), dei 4 ex grillini finiti nel Misto, dei neo senatori a vita Elena Cattaneo e Carlo Rubbia . E, soprattutto, grazie ai 23 senatori del centro destra disposti a seguire Alfano, Quagliariello, Formigoni e Giovanardi nella battaglia contro i falchi di Forza Italia .

Il voto della fiducia, annacquata da Berlusconi, dunque, finisce con il governo che incassa 235 sì (due in più rispetto all’esordio del 29 aprile) e 70 no anche se poi un drappello di forzisti non segue le indicazioni del Cavaliere: se infatti Berlusconi passa sotto il banco della presidenza e dice sì a Letta con la faccia di chi va a un funerale, poi non lo seguono Sandro Bondi (che con ordini incerti aveva appena parlato in aula di «governicchio Letta destinato al fallimento»), Francesco Nitto Palma, Giulio Tremonti, Alessandra Mussolini, Remigio Ceroni, Augusto Minzolini, Manuela Repetti, che disertano la chiama. Invece Vincenzo D’Anna vota la sfiducia e si rivolge al capogruppo del Pd, Luigi Zanda, e gli dice: «Se il Pd non mi vuole io ti dico che non mi meriti». Tra i grillini che dicono no a Letta sono assenti invece Crimi (in missione), Orellana e Marton.

Fiducia a Letta e il Pdl si spacca. La Stampa: “Dietrofront in extremis di Berlusconi. Ma i dissidenti puntano a gruppi autonomi Il premier: “Basta ricatti”. Napolitano: intollerabile riaprire il gioco al massacro.”

La ex grillina dice sì a Letta e i 5 Stelle la coprono di insulti. L’articolo a firma di Andrea Malaguti:

“«Ah no, questo poi no». Al senatore Gianluca Castaldi gli si gonfia la vena. Diventa rosso, si trasfigura. E l’espressione del suo viso lascia improvvisamente immaginare una personalità diversa. Effimera. Aliena. Pericolosa. Provvisoria. Abbandona i banchi del Movimento Cinque Stelle come se fosse attratto da una forza soprannaturale e parte alla carica verso il lato sinistro dell’emiciclo. Sguaina il dito come se fosse una pistola e lo punta dritto al centro della fronte fu-collega, ora trasmigrata al gruppo misto, Paola De Pin. Le grida: «Non hai nessun diritto di stare qui. Vattene fuoriiiiiiiii». O forse – è questa la tesi presumibilmente superfetata di alcuni senatori vicini alla scena – «ti ammazzo, esci fuori». «Mai detto», giurerà Castaldi.

In ogni caso la insulta, di certo la spaventa, confortato dal coro «venduta, venduta» intonato dai suoi colleghi-cittadini, ma confermando, involontariamente, la non infondatezza della tesi espressa dalla De Pin. «Fanno tanto i puri, ma il Movimento è diventato una continua istigazione alla violenza». Idea interessante ed evidentemente discutibile. Ma che c’entra tutto ciò col caos sgangheratamente rivoluzionario del Giorno del Giudizio?”

E in Italia la corruzione pesa 60 miliardi l’anno. La metà del totale europeo. L’articolo a firma di Marco Zatterin:

“Un brutto problema di immagine e non solo. Le possibilità che in Italia un appalto pubblico sia viziato dalla corruzione arrivano al 10% delle gare, oltre tre volte il dato francese e più di dieci volte quello dell’Olanda, dove il malaffare influisce per meno dell’1% sull’aggiudicazione dei contrattti. Siamo un paese a rischio – lasciano intendere i dati messi insieme da Price&Waterhouse per l’Olaf, l’agenzia antifrode europea -, poco trasparente e gradito ai malfattori, del resto i volumi non richiedono commenti. Dei 120 miliardi che la Commissione Ue stima siano sottratti ogni anno all’economia continentale dalle tangenti, metà è di nostra competenza. E’ un record imbattibile che nessuno potrebbe mai invidiarci.

Fa poca differenza il non essere soli. Dal rapporto consegnato all’Europarlamento come contributo per un’audizione sui costi della corruzione nelle gare di appalto continentali si scopre che, posto un campione di otto stati (Italia, Francia, Paesi bassi, Lituania, Ungheria, Spagna, Polonia, Romania) e cinque settori chiave (come costruzioni e risorse idriche), nel 2010 sono stati sfilati dalle casse pubbliche e comunitarie 2,2 miliardi. E’ in media il 3% del valore delle aggiudicazioni, cifra che sale di oltre tre volte quando si misura nel Bel Paese.

A livello europeo il vizietto della bustarella colpisce più frequentemente nel settore dei corsi di formazione, dove si paga per insegnare alla gente come trovare un lavoro. Qui la possibilità che qualcuno abbia oliato finanziariamente gli ingranaggi supera il caso su quattro (28%), seguita dal settore idrico (27%). Bassa la truffa stradale (13%): i controlli sono più stretti e i casi meno frequenti. Il dato quasi raddoppia nelle ferrovie, soprattutto alla voce “materiali”.”

Obamacare, milioni a caccia di una polizza. L’articolo a firma di Paolo Mastrolilli:

“La riforma sanitaria di Obama, cioè la ragione per cui i repubblicani hanno imposto il blocco alle attività dello Stato, è un grande successo di pubblico. Troppo grande, al punto che nel primo giorno di funzionamento milioni di americani hanno assalito i siti per l’iscrizione, provocando problemi tecnici e paralisi.

I critici ora sfruttano questi guai per accusare il governo di non essersi preparato all’esordio. La Casa Bianca, però, risponde che l’affluenza dei cittadini dimostra quanto fosse necessaria la riforma, e quanto sia sbagliata l’azione del Gop per bloccarla.

L’80% degli abitanti ha la copertura sanitaria: o perché lavorano e sono ricchi, circa il 50%; oppure perché sono poveri e anziani, il 30%, e ricevono l’assistenza pubblica di Medicaid e Medicare. Questo lascia scoperto il 15% di mezzo, non abbastanza ricco per acquistare l’assicurazione, e non abbastanza povero (il limite è 31.322 dollari all’anno per una famiglia di 4 persone) per ricevere la sanità gratuita. Inoltre c’è un 5% che non appartiene ad alcun gruppo e compra le polizze individuali a condizioni spesso svantaggiose.”

Mal di Gala. L’articolo a firma di Marco Ansaldo:

“Sarà dura. Lo slogan dei No Tav cala dalla Val di Susa e accompagna la Juve nella Champions League dei sogni che il 2-2 contro il Galatasaray ha un po’ compromesso. La situazione è la stessa dell’anno scorso, due pareggi nelle prime due partite, ma stavolta ci sono da scalare i due match contro il Real Madrid e l’ultima partita in casa dei turchi sarà fuoco purissimo e potrebbe non bastare il pareggio. Più che Mancini, di un’eleganza inappuntabile ma ancora poco coinvolto in una squadra che conosce da due giorni, l’eversore è stato Didier Drogba, che Marotta aveva inseguito a gennaio virando poi su Anelka perché l’ivoriano alla sua età costava troppo. Non obiettiamo sul costo ma quanto all’età Drogba fa ancora reparto da solo: ha segnato un gol e ne ha ispirato un altro con l’affettuosa amicizia dei difensori juventini. Ecco, la Juve di Coppa si è abbonata agli errori e ai rimpianti: con il Copenaghen per non aver saputo sfruttare le occasioni, con il Galatasaray per aver regalato le due reti, l’ultima appena un minuto dopo che Quagliarella (bravo a conquistare al 33’ della ripresa il rigore del pareggio) aveva completato al 42’ la rimonta dallo 0-1 al 2-1, e sarebbe stata una vittoria miracolosa. Di rimpianto in rimpianto, se non danno una sterzata contro il Real Madrid finisce che i bianconeri dovranno puntare alla finale di Europa League nel loro stadio, altro che Champions. Purtroppo, come ha dimostrato anche il Napoli, ciò che basta in campionato non è sufficiente per cavarsela in Coppa.

Bisogna ripetersi. Non è ancora, e chissà se lo sarà più, la Juve delle ultime due stagioni. Conte, come una moderna Cassandra, denunciò a maggio il rischio dell’usura del bel giocattolo, a meno che non ci fosse una robusta iniezione di qualità e tutti, noi compresi, la giudicammo la lamentazione di uno di questi allenatori della «nouvelle vague» talmente perfezionisti che non gli va mai bene niente. Dopo un mese e mezzo di risultati migliori che le prestazioni cominciamo a pensare che avesse ragione. Conte sa che la Juve non è una squadra di puro talento, il molto che ha fatto lo deve all’organizzazione di gioco in cui si calano gli interpreti: se diminuiscono l’intensità, la ferocia e la concentrazione i bianconeri diventano una squadra quasi normale perché gli schemi non bastano più e la manovra è faticosa. Basta una serata con mezzo Pogba, un quarto di Vidal, un terzo di Pirlo, tutto Isla e il gioco si complica, con l’insolita ricerca del lancio lungo e frontale che nel primo anno di Conte portava l’autore all’ergastolo.”