Germania, salario minimo 8,5. Tito Oldani, Italia Oggi

di Redazione Blitz
Pubblicato il 1 Agosto 2014 - 11:16 OLTRE 6 MESI FA
Angela Merkel

Angela Merkel

ROMA – “Anche nei salari – scrive Tito Oldani di Italia Oggi – abbiamo un’Europa a due velocità, con paghe in aumento in Germania e nel Nord europeo, ma sempre più povere in Italia e nel Sud europeo”.

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A certificarlo, è il capo degli economisti della Banca centrale europea, Peter Praet, che al settimanale tedesco Der Spiegel ha dichiarato di condividere l’appello della Bundesbank favorevole a salari più elevati in Germania. Nei periodi di crisi, ha spiegato Praet, i bassi salari sono necessari per aumentare la competitività dei Paesi europei che soffrono di squilibri sia nei conti pubblici che in quelli del settore privato. Al contrario, in Paesi come la Germania, dove l’inflazione è bassa e il mercato del lavoro tira, «salari più elevati sono appropriati». In pratica, per bocca del suo capo economista, la Bce di Mario Draghi ha dato disco verde all’aumento del salario minimo in Germania, che, dal primo gennaio, salirà a 8,50 euro l’ora. Una decisione storica del governo di Angela Merkel, pretesa dai socialdemocratici che ne fanno parte, e condivisa, da ultimo, anche dalla Bundesbank, che, in passato, è sempre stata un guardiano inflessibile dei bassi salari. L’obiettivo comune (governo Merkel, Bundesbank e Bce) è di stimolare un aumento dei prezzi verso il 2% di media, che rappresenta l’obiettivo strategico della Bce, e invertire così il trend che da mesi spinge l’economia europea verso la deflazione, vale a dire verso il peggio.

Di fronte a questo cambio di rotta tedesca, alcuni «sviluppisti» di casa nostra, che sono alquanto faciloni, hanno immediatamente suggerito al governo di Matteo Renzi di fare altrettanto. Anche i democratici Usa di Barack Obama, argomentano gli sviluppisti, hanno proposto al Congresso di aumentare il salario minimo americano da 7,25 a 10,10 dollari l’ora, a partire dal 2016. E in Europa il salario minimo, oltre che in Germania, è già in vigore anche in Francia, Gran Bretagna e Olanda, mentre l’Italia ne è sprovvista, al pari di Austria, Danimarca, Finlandia, Svezia e Cipro. Dunque, perché non introdurre anche da noi il salario minimo? Un’analisi facilona, che oltre a ignorare i costi proibitivi di una simile operazione in un Paese indebitato come l’Italia, non tiene conto delle differenti velocità delle economie dei Paesi mediterranei rispetto a quelli del Nord europeo. Divario ben presente a Draghi, che, nella sua intervista più recente, ha detto chiaro e tondo che «i salari dovranno calare per migliorare la competitività di quei Paesi dove il risanamento dei conti pubblici è più difficile». E l’Italia è di sicuro tra questi. Anche per questo, dopo avere cercato senza successo di rilanciare i consumi con il bonus di 80 euro, il governo Renzi si tiene alla larga da bombe a orologeria come il «salario minimo», o peggio come il «salario di cittadinanza» caro ai grillini, argomenti buoni per fare promesse elettorali, ma devastanti per i conti pubblici. In compenso, nel tentativo non facile di ridurre l’area dei giovani privi di qualsiasi occupazione, Renzi e il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, hanno deciso di estendere il servizio civile retribuito per i giovani dai 18 ai 28 anni.

Su questo tema, sono immediatamente fioccate le polemiche. Sul Corriere della sera, Ernesto Galli della Loggia ha liquidato la riforma del servizio civile come un’occasione mancata, o peggio come una mera routine burocratica per distribuire qualche finanziamento in più alle varie associazioni che gestiscono il volontariato civile. Piccato, il sottosegretario al Lavoro, Luigi Bobba, gli ha risposto che il servizio civile è una forma di «patriottismo dolce», che rende migliore il nostro Paese. Per questo, bene ha fatto Renzi a potenziarlo, con l’obiettivo di avviare al servizio civile entro il 2017 circa 100 mila giovani, contro i 15 mila attuali. Una riforma, sostiene Bobba, che «mobilita risorse, competenze e persone per obiettivi di interesse generale, utile ai giovani in termini di crescita personale e di acquisizione di competenze in vista del successivo percorso professionale».

Quanto ai costi di questo «patriottismo dolce», il ministro del Lavoro, Poletti, è stato finora l’unico che ha tirato fuori qualche dato. I calcoli si basano su una retribuzione mensile di 500 euro, pari a 6 mila euro l’anno: per centomila giovani tra i 18 e i 28 anni fanno 600 milioni di euro in totale. Ci sono questi soldi nel bilancio dello Stato? Non tutti, ha spiegato Poletti a Repubblica. Per ora, ce ne sono solo una parte, «tra i 200 e i 250 milioni, che consentiranno al primo contingente, circa 40 mila ragazzi, di partire tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo. Altre risorse le troveremo con la garanzia giovani e dallo stanziamento ordinario per il servizio militare. Ma è un tema che affronteremo nel 2015».

Fermiamoci qui, per ora, e facciamo un rapido calcolo: 500 euro al mese fanno 125 euro a settimana. Nell’ipotesi delle 40 ore lavorative classiche, siamo di fronte a una paga oraria di 3,125 euro. A chi ha provato a sostenere che si tratta di una paga da fame, che introduce la figura del «sottopagato di Stato», Poletti ha risposto che si tratta di «una critica ingiusta, perché non tiene conto dell’importante contenuto di esperienza insito nel servizio civile». Sarà anche vero, ma il governo Renzi come spiega la differenza con il salario minimo tedesco, che è quasi il triplo? Su questo punto, solo bocche chiuse, governo muto. E non potrebbe essere diversamente, poiché è proprio da questi dettagli che si misura l’Europa a due velocità, inchiodata a questo divario dal Fiscal compact. Un dualismo sempre più netto, che per l’Italia significa per il futuro «riduzioni salariali» per chi è già occupato (Draghi), mentre per i giovani disoccupati che riusciranno a entrare nel servizio civile, un salario da Terzo mondo (3,125 euro l’ora), inferiore a quello di una colf. Ogni commento è superfluo.