Gherardo Colombo: “Aboliamo il carcere”. Tormenti e confessioni dell’ex magistrato di Mani Pulite

di Redazione Blitz
Pubblicato il 4 Maggio 2020 - 11:45| Aggiornato il 5 Maggio 2020 OLTRE 6 MESI FA
Gherardo Colombo: "Aboliamo il carcere". Tormenti e confessioni dell'ex magistrato di Mani Pulite

Gherardo Colombo (a destra) conAntonio Di Pietro ai funerali di Francesco Saverio Borrelli (Ansa)

ROMA – Il carcere non serve a niente, sostiene l’ex magistrato e soprattutto membro storico del pool di Mani Pulite, Gherardo Colombo

La disumanità della prigione fa a cazzotti con lo spirito della Costituzione che educa ed insegna a ragionare, non a ubbidire e a sottomettersi all’autorità.

Il carcere è da abolire, va superata l’dea della giustizia retributiva.

Ed è possibile, anzi, mettere il soggetto pericoloso nella condizione di non esercitare la propria pericolosità.

Sono tutti concetti e aspirazioni ideali non nuovi già affrontati da Gherardo Colombo nel pamphlet del 2003 “Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla”, oggi ribaditi in una intervista a Nicola Mirenzi su Huffington Post.

L’intervista è tuttavia interessante – e un filo inquietante – per il racconto del travaglio psicologico e professionale del magistrato, addirittura del tormento interiore di non poter assolvere al compito per il quale ha speso carriera ed esistenza. 

Mandare in galera i colpevoli. 

L’idea di mandare in galera una persona mi tormentava, mettendomi davanti a interrogativi insolubili e angosciosi.

Ho cominciato a pensare che il carcere non fosse più compatibile con il mio senso della giustizia, la mia concezione della dignità umana, la mia interpretazione della Costituzione.

Più che pensare, in realtà sentivo: sentivo tutta l’ingiustizia della prigione.

Era ormai intollerabile: perciò, dopo anni passati a pensarci, ne ho tratto tutte le conseguenze”.

Fa onore al vecchio magistrato, sempre circonfuso – sarà la rada chioma bianca ingovernabile – da una aureola di probe virtù, l’autocritica spietata sui fallimenti conseguiti specie quando ammette l’inutilità non solo del disumano carcere ma anche delle stesse inchieste.

“Credevo che fare le inchieste, rivelare cosa c’era dietro il delitto Ambrosoli, le trame della P2, i fondi neri per l’Iri, nonché le tangenti di Mani Pulite, sarebbe servito ai cittadini per esercitare meglio la democrazia, per aiutarli a scegliere con più consapevolezza.

Non fu così. Nemmeno dopo aver scoperto le malefatte peggiori successe niente”.

Crocianamente, non può non sentirsi cristiano, ma a credere nell’esistenza di Dio non ce l’ha mai fatta: per credere all’inutilità della sanzione detentiva è dovuto tuttavia passare attraverso una lacerante conversione ispirata da un gesuita tedesco.

Una conversione che è riuscita a fargli superare la tragica contraddizione di difendere, in assoluto, la dignità e il diritto al riscatto umano degli assassini di suoi colleghi d’ufficio.

Come il giudice Guido Galli, ammazzato da Prima Linea in un pomeriggio del 1980.

“Mi riconosco completamente in molti passi del Vangelo.

In particolare nel discorso della Montagna, così come lo riporta il testo di Matteo: là dove Gesù rifiuta la legge dell’occhio per occhio dente per dente e parla di una giustizia completamente diversa”.

Se però proviamo a scendere dai piani alti dell’afflato spirituale, l’impressione è quella di precipitare.

Sbattendo sulla realtà e il buon senso nemico del senso comune: lo spirito cozza contro i fatti e l’astrazione ideale mal comprende la finitezza, la cattiveria, la debolezza degli uomini in generale, dei delinquenti in particolare.

“Dopo i gulag i padri costituenti non userebbero più la parola per definire il fine della pena”, dice Colombo, a proposito di “rieducazione”.

Ma non scioglie la contraddizione terrena: la Costituzione educa, ma lo Stato non può rieducare per non correre il rischio di scivolare su parole compromettenti la correttezza politica.

Il legno storto dell’umanità non sogna la salvezza che gli propone Colombo, non aspira alla trasformazione, alla palingenesi (glielo ricorda l’intervistatore insieme alla “lezione” del Grande Inquisitore in Dostoevskij secondo cui Cristo non può chiedere agli uomini di imitarlo).

Michelangiolescamente, il grande tormento di Gherardo Colombo conduce a un’estasi ridotta, a una seduzione/sedazione a rilascio controllato.

Che sostituisce la spada implacabile del Dio degli eserciti alla lacrima misericordiosa del Dio del perdono. (fonte Huffington Post)