Gianluca Comin: “Una nuova società facilita le altre nelle relazioni esterne”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 27 Marzo 2015 - 16:22 OLTRE 6 MESI FA
Gianluca Comin: "Una nuova società facilita le altre nelle relazioni esterne"

Gianluca Comin: “Una nuova società facilita le altre nelle relazioni esterne”

ROMA – “La mia azienda – dice, intervistato da Specchio, Gianluca Comin, fondatore di Comin&Partners – è un pesce bianco in un acquario di pesci rossi. Non siamo una società di media relations, di public affairs, di comunicazione. Siamo una società di alta consulenza nelle relazioni esterne e non c’è altra realtà di questo tipo nel mercato. L’importante è restare bianco in mezzo ai rossi ed evitare di diventare rosso anch’io o che qualcun altro diventi bianco come me”.

Domanda. Lei al momento del blackout era agli inizi del suo percorso nell’Enel. Dodici anni dopo, come vive il passaggio a una esperienza di tipo imprenditoriale?

Risposta. Vi ho trascorso dodici anni fantastici, che mi hanno permesso di spe- rimentare qualsiasi novità, nella comuni- cazione ma anche nei rapporti istituzio- nali. Il tutto in una struttura molto forte e importante, con persone di altissima qua- lità come Paolo Scaroni e Fulvio Conti e in un contesto internazionale. Soprattut- to negli ultimi anni, poiché Fulvio Conti, come amministratore delegato e direttore generale, ha dato una svolta epocale al- l’azienda della quale ci renderemo conto forse solo nei prossimi decenni, quando sarà compiuto l’ennesimo consolida-mento nel settore e si capirà che l’ener- gia elettrica sarà uno dei pochi ambiti nei quali l’Italia sarà ancora presente a livel- lo internazionale, a differenza che in altri comparti come l’informatica o le teleco- municazioni. Dopo questa enorme espe- rienza, dodici anni in un posto del gene- re, per chi fa il mio mestiere, è forse un caso unico, c’è appunto un «dopo». Cosa che avevo previsto da tempo, perché è necessario che ogni esperienza abbia un termine. Mi ero preparato, mentalmente, su varie ipotesi, quella di cambiare lavo- ro, cambiare azienda o addirittura cam- biare Stato, nel senso di dedicarmi a un’esperienza internazionale. Alla fine, la scelta di cominciare la via imprendito- riale è nata soprattutto perché credo che ci siano le condizioni, in questo momen- to, per fare qualcosa d’importante in questo settore.

D. Non è la prima volta che lei cambia vita: nasce come giornalista, e poi?

R. Dieci anni di giornalismo al Gaz- zettino. Poi, contro il parere di tutta la mia famiglia che si domandava perché volessi buttare via anni di precariato e di sacrifici, andai a fare il manager, pri- ma per la Montedison, poi per la Tele- com, poi per l’Enel. Cambiai senza re- more né preoccupazioni e senza voltar- mi indietro, esattamente come sto fa- cendo adesso.

D. Adesso dovrebbe essere più facile, vista la mole di esperienza che può mettere in campo in questa nuova sfida?

R. Infatti. Esperienza che mi permette di pormi in un ambito in cui non ci sono tanti altri. Quello dell’alta consulenza in comunicazione e relazioni istituzionali, soprattutto per quel che riguarda il «crisis management» e, in generale, nella capa- cità di capire i clienti, siano essi interna- zionali o nazionali, e offrirgli il bagaglio di esperienza accumulato in questi anni.

D. Che cosa vuol dire, sul piano della comunicazione, gestire una crisi e perché è importante?

R. Nelle grandi aziende le crisi sono ri- correnti. Uno degli elementi fondanti per affrontarle, non importa quanti manuali hai studiato, è l’esperienza. Credo di aver- ne accumulata molta, dal blackout del 2003 alle grandi nevicate, ai morti nelle centrali fino a crisi finanziarie, attacchi terroristici o di ambientalisti. Tutto quello che si può immaginare possa accadere nella vita di una azienda l’ho provato.

D. Come cambia la comunicazione in presenza di una crisi? R. Si accelera l’azione in maniera for- tissima. Nelle prime dodici ore si decide lo «spin» da dare all’informazione. E questo vale sia per una questione giudiziaria, un arresto o un avviso di garanzia a un manager o a un imprenditore, sia per questioni non prevedibili come un terremoto o una grande nevicata. I rischi, va detto, non sono comunque diversi og- gi rispetto a trent’anni fa. D. Oggi che cosa cambia? 

R. Cambia la velocità. Con i social media si è accelerata in maniera fortissi- ma la comunicazione. Tutti possono por- tare informazioni al vertice quindi, tanto per portare un’esperienza nel mio vec- chio lavoro, io che sono un cittadino di un piccolo borgo e sono senza luce, men- tre cinque anni fa avrei dovuto conoscere un giornalista e mandare una lettera al giornale, oggi con un «tweet» a un diret- tore di giornale posso accendere il suo interesse e la sua attenzione. C’è insom- ma un’accelerazione pazzesca che ri- chiede reazioni altrettanto accelerate. Di fronte a un evento che mette a rischio un servizio per i consumatori, la risposta non può essere in giorni, deve essere in ore, in minuti.

D. Quale spazio ha nelle aziende la figura del comunicatore?

R. Sono vent’anni che combatto affin- ché la professione di comunicatore sia affermata come quella del direttore fi- nanziario o del capo del personale. Or- mai ci siamo, perché nelle grandi azien- de il direttore della comunicazione o del- le relazioni esterne opera a fianco del- l’amministratore delegato, fa parte dei comitati esecutivi, partecipa alle strate- gie. Quindi tutte le caratteristiche che de- ve avere un manager ci sono. Ci sono un po’ meno nella media impresa italiana o nell’impresa padronale, dove magari la comunicazione viene vissuta in maniera più superficiale. D’altro canto è cresciuta anche la consulenza. Oggi ci sono tanti professionisti in grado di sostenere in progetti particolari e complicati le im- prese nelle loro iniziative sia commer-bagaglio piuttosto esclusivo, che a cin- ciali sia di crescita.

D. Quale può essere l’«identikit» del cliente tipo di Comin & Partners?

R. Sono soprattutto tre. Uno, la multi- nazionale che viene in Italia per compiere grandi operazioni. Hitachi, che sta parte- cipando alla gara per l’acquisizione di AnsaldoBreda, è il tipico attore che ha bi- sogno di una struttura come la nostra quale supporto strategico per «entrare» nel Paese, mettendo a punto un’intelli- gence sul piano politico, istituzionale e di comunicazione a 360 gradi. Secondo cliente tipo è il manager o l’imprenditore che deve diffondere la propria immagine in maniera diversa. Ha bisogno di un sal- to di qualità, non gli basta più la struttura interna e vuole affiancarla a una dimen- sione più internazionale. Così per un pe- riodo si affida a dei professionisti che hanno la possibilità di mettere a punto un revamping, per così dire, della sua imma- gine, o di trasformare la sua dimensione locale in una dimensione internazionale. Terza tipologia di clienti, coloro che sono investiti da un problema enorme, da una crisi molto delicata e hanno quindi biso- gno di una gestione esterna che sostenga quella interna in quella fase.

D. Vi occupate anche di marketing politico?

R. Ci stiamo pensando da vicino. È un terreno di sperimentazione molto inte- ressante, ma non può essere un compito esclusivo, nel senso che lavoreremo per politici ma senza essere i comunicatori esclusivi di riferimento di quel partito o di quel politico. La nostra è una struttura operativa rivolta a varie tipologie di clienti. La politica è interessante anche sul fronte, su cui stiamo già lavorando, dei «big data», ossia dei grandi numeri che rivelano l’atteggiamento delle perso- ne, settore di grande interesse e in svi- luppo non solo per il marketing commer- ciale, ma anche per la politica. Il futuro non sarà convincere uno di destra a vota- re per la sinistra, ma convincere chi è già convinto ad andare a votare. Per farlo bi- sogna capire chi è più progressista e chi è più conservatore, andando a vedere che cosa legge, che cosa pubblica su Face- book, che programmi tv guarda, chi fre- quenta, una sorta di investigazione basa- ta su dati che noi tutti forniamo volonta- riamente.

D. Riassumendo, qual è il valore ag- giunto che lei mette in questa nuova società?

R. Aver già vissuto due vite, quella giornalistica e quella di manager, aver operato in grandi aziende e quindi aver visto tante cose complesse, aver gestito centinaia di persone, milioni di euro di budget, e con innovazione. Da X Factor a Sky arte, ad Enel contemporanea ai tour per il Paese, alle campagne internaziona- li, Enel è arrivata al G 20, al tavolo con i grandi della Terra, prima di chiunque al- tro in Italia. Tutto questo fa parte di un quant’anni ho deciso di mettere in campo per giocare una partita nuova. Il tutto combinato con una squadra davvero eccellente.

D. Com’è composta la sua squadra di «partner»?

R. Cinque partner non certo presi a caso, ma con una grande esperienza dietro le spalle. Ele- na di Giovanni, già responsabile della comunicazione della Mon- dadori, poi alla Biennale di Ve- nezia, ha lavorato anche per otto anni all’estero, tra Brasile e Germania. Al suo ritorno è stata direttore della comunicazione di Almaviva e poi di Expo, è dun- que molto esperta di comunica- zione e di progetti innovativi che incrociano aspetti come cul- tura e mercato. Francesco Rus- so, avvocato, lascia un impor- tante studio dove si occupava di antitrust per venire con noi, do- ve si occupa di «practice public affairs», fa questo mestiere per così dire «all’americana», e affronta i problemi da un punto di vista tecnico e poi, e que- sto è molto importante, è abituato a con- frontarsi con amministratori delegati. Per l’ufficio stampa abbiamo Riccardo Acquaviva, ex capo ufficio stampa del- l’Enel, anche lui con grande esperienza, anche internazionale. Per il digitale, so- cial network, comunicazione innovati- va, c’è Gianluca Giansante, professore universitario, ex responsabile della co- municazione della Regione Lazio con tanta esperienza anche nel campo del settore sociale. A differenza di altre realtà in questo campo, dove ci sono tanti junior e pochi senior, noi abbiamo fatto l’inverso, vogliamo restare snelli, anche a costo di avere qualche cliente in meno, ma potendo dedicarci ai clienti in maniera profonda ed efficace, visto che li curiamo in tutto: dall’immagine al modo di parlare in pubblico, a dove e come intervenire nei convegni, a quali interviste fare e con chi allearsi.

D. Quanto le serve oggi la sua esperienza di giornalista?

R. Per anni ci si è chiesti se un giorna- lista debba essere un comunicatore e co- me si possa passare da una professiona- lità all’altra e viceversa. Io sono stato per quattro anni presidente dell’Associazione dei comunicatori italiani, la Ferpi. Su queste tematiche mi sono molto confron- tato, arrivando alla conclusione che ci siano bravi e non bravi, non necessaria- mente con steccati chiusi. Ci sono gior- nalisti bravissimi a diventare comunica- tori, a passare da cercatore di notizie a propositori di informazioni, e altri che non sono in grado di farlo. Per quanto mi riguarda, l’essere giornalista mi ha dato almeno tre vantaggi. Primo, la capacità di capire il contesto in cui ti trovi, un po’ di analisi, magari superficiale rispetto a un ricercatore, ma che dà quella visione che, portata in azienda, costituisce il valore aggiunto. Secondo, la capacità di essere alla pari dei «boss»: un giornalista è abi- tuato a intervistare chiunque e quindi non ha problemi ad interagire ad alti livelli, mentre chi parte dentro l’azienda ha del timore reverenziale per la gerarchia. Ter- zo, la capacità di scrittura. A me è servita enormemente: ho fatto il «ghostwriter» per anni, ho allenato la capacità di sintesi e tutto mi è derivato dall’aver fatto il giornalista. Oggi poi lo «storytelling» sta diventando fondamentale per raccontare l’azienda, le persone, la politica.

D. Guardandosi attorno, quali sono gli errori di comunicazione più comuni ed evidenti? 

R. L’errore più frequente cre- do sia quello di fare una comu- nicazione che piace a se stessi e non al target cui ci si rivolge. In realtà è vero che oggi comuni- cando si arriva a tutti, ma l’es- senziale è raggiungere i clienti che ci interessano. Quindi è es- senziale la capacità di focaliz- zarsi su un target specifico nel messaggio e nel modo di arri- varci. Purtroppo spesso si tende a fare ciò che piace a sé o al pro- prio capo invece di fare ciò che è necessario per vendere il pro- dotto. Non dobbiamo vergo- gnarci ad esempio di essere po- polari se il nostro mercato è per le persone comuni. Inoltre dobbiamo sempre più immagi- nare una continua formazione e innovazione nel nostro lavoro, oggi più di prima. La direzione da seguire? Cambia in continua- zione. Oggi per esempio un co- municatore non può prescindere dalla pubblicità sul «mobile», che non vuol di- re trasferire tout court la pubblicità che faccio in televisione o su internet nella tecnologia mobile, ma significa comuni- care in modo da arrivare a qualcuno che sta in autobus per un quarto d’ora e vede un video su Google o su YouTube.

D. Dobbiamo imparare molto dall’estero, dagli Stati Uniti?

R. Non credo, non sono tra coloro che ritengono che dobbiamo imparare tutto. Alcuni orientamenti magari arrivano un po’ prima negli Usa e conoscerli in antici- po aiuta. Pochi mesi fa sono stato alla Google in California a Mountain View ed è stato molto interessante capire dal loro punto di vista, che è prettamente com- merciale, le nuove tecniche di pianifica- zione attraverso i social network, la rete, e certamente c’è molto da imparare e da sperimentare. Però alla fine c’è grande qualità anche in Italia. La grafica italiana è apprezzata in tutto il mondo. Adesso c’è grande polemica per il logo di Roma, io trovo che si tratti di un lavoro fatto bene e forse mal comunicato. La realtà è che in fatto di grafica ci copiano tutti.

D. Come si gestisce la concorrenza in questo mestiere?

R. Il ruolo che ho deciso per la mia azienda la rende un pesce bianco in un acquario di pesci rossi. Non siamo una società di «media relations», non siamo una società di «public affairs», non sia- mo una società di comunicazione. Siamo una società di alta consulenza nelle rela- zioni esterne. E non c’è nessun’altra realtà di questo tipo sul mercato, a parte qualche network internazionale, con di- verse strutture di costi rispetto a noi. L’importante è restare bianco in mezzo ai rossi ed evitare di diventare rosso an- ch’io, o che qualcun altro diventi bianco come me. È tutta imprenditore.