L’intuito di Umberto Agnelli, Valerio Castronovo sul Sole 24 Ore

di Redazione Blitz
Pubblicato il 27 Maggio 2014 - 12:35| Aggiornato il 22 Aprile 2020 OLTRE 6 MESI FA
Umberto Agnelli in un'immagine del 2 febbraio 2001.

Umberto Agnelli in un’immagine del 2 febbraio 2001.

ROMA – “Lo aveva detto l’Avvocato del fratello – scrive Valerio Castronovo sul Sole 24 Ore – quando Umberto Agnelli nel gennaio 1970 affiancò Gaudenzio Bono nella carica di amministratore delegato della Fiat. Puntiglioso e tenace, il Dottore (come lo chiamavano in Corso Marconi) si proponeva di rimpiazzare la nomenclatura gerarchica al vertice dell’azienda con una struttura divisionale decentrata e, dopo un duro braccio di ferro con la “vecchia guardia” vallettiana, riuscì a spuntarla”.

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Ma intanto un’irruente conflittualità sindacale aveva preso di mira, dall’“autunno caldo”, il sistema di fabbrica fordista di Mirafiori. Tuttavia i “kennediani” della Fondazione Agnelli (tra gli alfieri nel 1970 della “riforma Pirelli” in Confindustria) confidavano che si potesse trovare un modus vivendi con la Cgil tramite la dirigenza di Botteghe Oscure. E dopo l’incontro (il 14 settembre 1973) tra Umberto Agnelli e Giorgio Amendola, in un seminario bolognese del Mulino, a Torino si pensò che esistessero effettivamente le premesse per un’intesa tra le forze produttive che modernizzasse il Paese disboscandolo da sperperi e da privilegi corporativi. Si riteneva in sostanza che, dopo l’ingresso della Gran Bretagna nella Cee, il Pci si sarebbe orientato verso sponde socialdemocratiche agendo in modo che a una più efficiente economia di mercato corrispondessero una redistribuzione più equa del reddito a vantaggio dei lavoratori e una riduzione del dualismo fra Nord e Sud. Fu questo il preludio del “patto dei produttori” proposto dall’Avvocato a Luciano Lama dopo la sua elezione nel 1974 alla presidenza della Confindustria.
Senonché, mentre l’impennata dei prezzi petroliferi e la stagflazione falcidiarono man mano i bilanci della Fiat, le rivendicazioni a getto continuo dei collettivi operai di base resero sempre più ingovernabili le catene di montaggio. E sopravvisse tre soli mesi (come è noto) il sodalizio stabilitosi nell’aprile 1976 con Carlo De Benedetti (nel suo duplice ruolo di azionista e top manager) che, nelle intenzioni di Umberto, avrebbe dovuto assecondare un vigoroso rilancio dei diversi settori del gruppo. Inoltre, mentre si rese indispensabile l’apparentamento con i banchieri di Gheddafi, per la ricapitalizzazione della Fiat, non fu più possibile destreggiarsi con la Dc che, per bocca di Fanfani, riteneva inammissibile l’atteggiamento critico dell’Avvocato e del suo entourage nei riguardi dello Scudo Crociato. Tant’è che Umberto, pur riconoscendo di «avere con i partiti laici molte affinità nella visione dei problemi della società italiana», nel giugno 1976 finì per accettare, “pro bono pacis”, la candidatura al Senato in un collegio a Roma controllato da Andreotti. Ciò che venne considerato una resa incondizionata a Piazza del Gesù: al punto che si dava per certa anche un’imminente “irizzazione” della Fiat.
In corso Marconi si decise così nel 1978 di affidarsi a Vittorio Ghidella, dopo lo scorporo della Fiat Auto, per rivitalizzare il core business del gruppo. Ma la caduta della domanda dovuta a una nuova crisi petrolifera e una sequela di agitazioni in fabbrica, nel mezzo di una recrudescente offensiva terroristica, resero insostenibile la situazione della Fiat (sempre più barcollante e indebitata). Perciò Umberto si addossò l’ingrato compito di annunciare nel giugno 1980 che non restava altra soluzione che licenziare 14mila dipendenti e svalutare la lira per ridar fiato alle esportazioni, dimettendosi un mese dopo in seguito agli anatemi suscitati dalla sua ipotesi.
Dopo la Marcia dei quarantamila del 14 ottobre 1980, concorsero alla progressiva rimessa in corsa della Fiat e al suo sganciamento nel 1986 dalla parentela finanziaria con i libici, anche i crescenti proventi dell’Ifil che Umberto trasformò, mediante brillanti operazioni internazionali, da un salvadanaio per l’argent de poche della famiglia Agnelli in una doviziosa cassaforte per l’azionista di riferimento del gruppo. E fu lui ad assumerne il timone nel 2003 dopo la morte dell’Avvocato (dato che nel 1997 era scomparso prematuramente suo figlio, Giovanni Alberto, designato alla guida del Lingotto).
Nell’ultima intervista rilasciata da Umberto nell’aprile 2004 a Roberto Napoletano (che la pubblicò poi nel suo libro su I padroni d’Italia), egli affermava che ci sarebbe voluta una carica di ottimismo analoga a quella della classe dirigente del dopoguerra, quando s’era trattato di ricostruire il Paese dalle macerie, per sospingere nuovamente l’economia italiana sulla strada dello sviluppo. Per quanto riguardava la Fiat, era comunque fiducioso che si sarebbe sintonizzata con le direttrici del mercato globale. Di fatto, sua era stata la decisione, di concerto con Gianluigi Gabetti, di cooptare nel gruppo torinese Sergio Marchionne, un manager rivelatosi presto di notevoli capacità strategiche.

(foto Ansa)