Iraq. Il Califfo avanza, i raid non lo fermano. Bernardo Valli spiega perché

di Redazione Blitz
Pubblicato il 16 Ottobre 2014 - 06:45 OLTRE 6 MESI FA
Iraq. Il Califfo avanza, i raid non lo fermano. Bernardo Valli spiega perché

Iraq. Il Califfo avanza, i raid non lo fermano. Bernardo Valli spiega perché

ROMA – “Perché i raid non fermano il Califfo sanguinario” si chiede il titolo di Repubblica e Bernardo Valli prova a aiutarci a capire qualcosa di più del

“conflitto in corso nella valle del Tigri e dell’Eufrate, dove si affrontano in una mischia micidiale sciiti e sunniti”.

Non è una novità:

“La tenzone risale all’epoca della successione a Maometto, ma non è sempre un’ostilità con una netta impronta religiosa. Spesso ha le caratteristiche di una schietta lotta per il potere politico tra comunità avversarie. Nelle guerre di religione i confini sono tracciati dalla fede, limpida o fanatica; quelli tra gli avversari di oggi sono spesso zigzaganti, frastagliati. Mobili. Capita infatti che le alleanze cambino secondo le situazioni.

A rendere rovente lo scontro, fino a trasformarlo in una carneficina, è la nascita dello « Stato islamico », autoproclamatosi califfato, quindi con alla testa un califfo che si considera il successore del Profeta. L’avvenimento accende passioni: esalta, crea diffidenza, ripugna. Chi è quel califfo? Un apostata ? Un millantatore ? Un capo religioso e al tempo stesso un combattente come ce n’era un tempo ? Uno che sfida l’Occidente infedele fonte di tante frustrazioni ? Un terrorista, un tagliateste di cui vergognarsi ?

La piaga riapertasi tra l’Iraq e la Siria, come a significare un ritorno a secoli crudeli, accende nel mondo musulmano tormenti molto più intensi dei timori che assalgono noi occidentali. Loro vi sono immersi, noi paventiamo rigurgiti nelle nostre contrade.

Per rendersene conto basta uno sguardo all’ampio campo di battaglia tra la siriana città di Raqqa e quella irachena di Falluja. Le potenze occidentali più ardite, Stati Uniti in testa, intervengono soltanto con incursioni aeree, si guardano bene dal mandare soldati a terra. Dopo Afghanistan e Iraq, l’America ne ha abbastanza.

Le stesse cinque nazioni arabe partecipanti alla grande coalizione (Arabia Saudita, Qatar, Bahrein, Emirati Uniti, Giordania) hanno la stessa reazione, sia pure per altre ragioni. Si limitano a mandare caccia e bombardieri. Niente fanteria. E nell’annunciare le loro azioni adottano toni lapidari. Poche parole. O addirittura il silenzio. Il Qatar non ne ha fatto parola.

È come se i cinque monarchi non volessero farlo sapere ai loro sudditi. Non desiderassero turbarli. Hanno aderito all’invito di Barack Obama, non potevano fare una sgarbo alla superpotenza, ma non se la sentono di esaltare un’operazione che li affianca agli occidentali contro dei musulmani. Il califfo usurpatore è sunnita come il re saudita e quello giordano (hashemita), e sunniti sono anche gli emiri, ma uniti lo combattono nonostante l’affinità religiosa perché è un apostata, perché è impresentabile, perché offende l’Islam con le sue decapitazioni e le sue esecuzioni di massa.

Ma all’inizio, prima che lo Stato islamico diventasse un tumore, cioè troppo potente, quasi tutte le capitali oggi a fianco degli Stati Uniti hanno aiutato i movimenti islamici. Erano strumenti utili: si opponevano al regime di Damasco, dominato da Bashar el Assad, un alawita imparentato con gli sciti, e quindi alleato del regime iraniano.

Il passato riversa nel presente ambiguità, incertezze, doppi giochi, intese segrete. E tanta paura. Lo Stato islamico fa proseliti nel mondo. Gruppi islamici in Africa, in Asia, in Europa che un tempo si richiamavano ad Al Qaeda, oggi si dichiarano seguaci dello Stato islamico.

Soprattutto appare evidente che il solo intervento aereo non ridurrà al silenzio le unità armate del califfato. In Iraq l’esercito nazionale stenta a ricomporsi dopo la grave sbandata di fronte alla prima offensiva jihadista. Delle cinquanta brigate formate dagli americani prima di lasciare il Paese, ne sono rimaste più o meno operative la metà. Per recuperare i disertori, ufficiali e soldati, ritornati in famiglia, il governo accetta che essi tornino impuniti nelle caserme. Ci vuole tuttavia del tempo per ricreare unità da impiegare sul fronte.

E i jihadisti sono a un’ora di automobile da Bagdad. Inoltre molti soldati iracheni preferiscono le milizie sciite, spesso appoggiate, armate, finanziate dall’Iran, rivelatesi in più occasioni le sole capaci di affrontare i jihadisti a terra. A volte con l’appoggio («non concordato ») dell’US Air Force.

Una situazione che lascia intravedere l’intesa non confessata tra iraniani e americani. In Siria non mancano gli uomini pronti a operare a terra. Non tutti i gruppi di opposizione al regime di Damasco sono jihadisti legati allo Stato Islamico. Ma gli americani non coordinano le incursioni aeree con le forze moderate a terra. E stando alle proteste di quest’ultime, mancando di informazioni, i bombardamenti non hanno per ora messo in difficoltà le truppe del califfato. Hanno colpito soltanto obiettivi secondari. Le incursioni su Raqqa, la »capitale» islamista, sono avvenute quando la città era già stata abbandonata dai guerriglieri.

Soltanto combattenti arabi, disposti a operare a terra, possono se non neutralizzare perlomeno circoscrivere le forze jihadiste che Barack Obama e i suoi alleati vorrebbero in un primo tempo arginare. Al Baghdadi, il califfo, è circondato da militari di carriera, disertori dell’esercito siriano oppure ufficiali del disperso esercito iracheno di Saddam Hussein. Uomini abituati a battersi senza un appoggio aereo e sotto i costanti attacchi dell’aviazione nemica.

La guerriglia anti americana in Iraq dopo l’invasione del 2003 e la guerra civile siriana sono stati lunghi addestramenti. Conta altresì lo stato d’animo della popolazione. Le repressioni dello Stato islamico non attirano la solidarietà, ma non la suscitano neppure i bombardamenti aerei di stranieri, invisibili, lontani, e con effetti inevitabilmente micidiali anche per i civili, nonostante siano mirati”.