Lavoro, assegno da mille euro per i precari disoccupati

Lavoro, assegno da mille euro per i precari disoccupati
Renzi (LaPresse)

ROMA – Parte per il suo viaggio di una settimana negli Stati Uniti, Matteo Renzi, dopo aver consegnato la linea sulla madre delle riforme e dato mandato ai suoi economisti di trasmettergli in tempo reale una per una tutte le opzioni percorribili sull’articolo 18 e le loro ricadute.

Ma è il sussidio di disoccupazione l’arma che il premier si gioca nella partita con i sindacati: la nuova Aspi che assorbirà anche la cassa in deroga e che verrà finanziata nella legge di stabilità con una posta aggiuntiva di circa due miliardi di euro dal 2015. Per garantire un assegno non solo ai dipendenti che restano senza impiego, ma anche a quelli che non hanno alcuna tutela, co.co.pro (in mono-committenza, cioè quelli che hanno un solo datore di lavoro) e lavoratori a tempo determinato, escluse partite Iva e altre tipologie: una platea di circa un milione e quattrocentomila persone.

Per loro, è in arrivo un sussidio mensile analogo a quello di chi è in cassa integrazione, fino ad un massimo di mille euro: per un periodo che va da un minimo di tre mesi a due anni, proporzionato alla durata del lavoro che si è perso. Ma l’erogazione di questo assegno sarà vincolata: ne avrà diritto chi sarà pronto ad accettare una nuova offerta di lavoro congruo o un piano di formazione lavorativa gestito da un’agenzia nazionale che si articolerà su base territoriale nei vari centri per l’impiego.

Scrive Carlo Bertini su La Stampa:

Una carta, quella dell’assegno per i precari, in parte già previsto dalla mini-Aspi introdotta dalla Fornero che riguarda però solo alcune di quelle categorie, con cui Renzi intende portare dalla sua parte la pubblica opinione e quella larga parte dell’elettorato spaventata dal tam tam sull’abolizione dell’articolo 18. Proprio nei giorni in cui Renzi sarà assente dall’Italia il jobs act affronterà la via crucis al Senato dove la metà del suo partito frena in attesa di un chiarimento su dove si vada a parare in concreto. E questo chiarimento arriverà prima del voto finale in aula previsto ai primi di ottobre: il 29 settembre la Direzione, l’organismo dove il premier detiene la maggioranza schiacciante grazie all’esito delle primarie, si pronuncerà con un sì o no al jobs act e così avverrà anche nei gruppi parlamentari. Ma la domanda che pongono tutti al premier, dentro e fuori il suo partito è: cosa ne sarà dell’articolo 18? Il primo nodo da sciogliere, su cui tutte le opzioni sono scandagliate nei loro risvolti, è se assicurare o meno che dopo tre anni o dopo sei anni dall’assunzione venga previsto o meno il reintegro. L’ipotesi più probabile è che sia lasciata solo la formula di un indennizzo monetario crescente con l’anzianità, pari a una mensilità all’anno; il governo sta valutando se garantire la possibilità del reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa dopo tre o sei anni.

Ma la novità delle ultime ore è che il reintegro potrebbe arrivare invece dopo dodici o quindici anni di lavoro, per dare ai più anziani uno strumento cui appellarsi. Secondo nodo: resterà l’articolo 18 per chi ha già un contratto a tempo indeterminato? In realtà non viene esclusa neanche l’abolizione della suprema garanzia per tutti, non solo per i nuovi assunti. Come spiega uno dei dirigenti del Pd che ha in mano la pratica, «dobbiamo decidere, perché se ai nuovi assunti viene tolto del tutto, significherebbe avere dei lavoratori più tutelati di altri». La materia è incandescente, non è solo la sinistra del partito con in testa i bersaniani a volere difendere i «diritti acquisiti»: sono tanti i renziani di provata fede, di stanza sia al Senato sia alla Camera, che non toccherebbero i contratti già in essere. E che nutrono il timore che il premier possa spingersi più in avanti, attestandosi su un fronte ancora più radicale.

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