Lehman Bros. poteva non fallire. Federico Fubini: il mondo sarebbe stato diverso

di Redazione Blitz
Pubblicato il 3 Aprile 2015 - 13:06 OLTRE 6 MESI FA
Lehman Bros. poteva non fallire. Federico Fubini: il mondo sarebbe stato diverso

Lehman Brothers

MILANO – La banca d’affari americana Lehman Brothers non doveva fallire nel 2008 e certo poteva non fallire. Se Lehman Brothers no fosse fallita, la storia del mondo negli ultimi sette anni sarebbe stata diversa perché molto probabilmente non si sarebbe scatenata la più tremenda recessione globale dopo quella del 1929. Questa convinzione condivisa da molti, viene certificata da Federico Fubini su Repubblica con un intenso e documentato articolo intitolato “Lehman La banca che non doveva fallire”.

Molti erano convinti che il fallimento di Lehman fosse o un atto di pura ideologia, l’ultima follia di George Bush presidente Usa, molti che fosse un regolamento di conti fra le due grandi dinastie finanziarie ebraiche di New York, i Lehman e i Goldman, divisi da secolare rivalità. Quest’ultima domanda continuano a farsela in tanti e tanti sono convinti che non sia vero, anche se la conseguenza pratica è che è rimasta solo Goldman Sachs a dominare la grande finanza mondiale.

Comunque le cose sono andate come sono andate e fra tra tre o quattro mesi, informa Federico Fubini, “verrà chiusa (almeno in Europa) la liquidazione” dalle cui evidenze emerge che

Lehman Brothers non è fallita. O, più esattamente, forse non era un caso disperato come si ritenne quando il Governo americano, la Federal Reserve, Jp Morgan Chase, Barclays, Morgan Stanley, Goldman Sachs e molti altri decisero che era tempo di staccarle la spina. Magari, amputata, la banca poteva vivere. O poteva essere spinta verso una lenta uscita di scena durante la quale alcune sue parti potevano rinascere sotto altre insegne.

“I numeri della liquidazione, ora che è quasi ultimata, suggeriscono che Lehman non era insolvente. Lo assicurano per la parte europea, lo fanno sospettare per la parte americana. […] Lehman sta rimborsando i suoi creditori con molto più denaro liquido di quanto si ritenesse concepibile la notte del 15 settembre 2008 in fu lasciata andare al suo destino”. […]

A fine settembre 2008, al portafoglio di derivati di Lehman fu valutato a 12 centesimi sul dollaro: carta straccia, appena più di un decimo del suo valore teorico. Il più recente rapporto del liquidatore europeo di Lehman, Pwc, riferisce invece di aver «portato il dividendo a 100 pence sulla sterlina».
Significa che sulle molte decine di miliardi di euro o dollari in attività e debiti legati a Lehman Brothers International Europe, gli indennizzi ai creditori sono stati (in media) integrali. In più è stato versato loro ogni anno un tasso d’interesse dell’8%, e dopo resterà ancora nei conti bancari del liquidatore un surplus di cassa fra 4,96 e 7,39 miliardi di sterline (fino a 10 miliardi di euro), di nuovo da spartire fra i creditori.

È un caso che un addetto ai lavori definisce «più unico che raro nelle procedure fallimentari». [In questi anni I curatori fallimentari di Lehman, un’industria di avvocati e consulenti con parcelle a New York erano da un miliardo l’anno, mille dollari l’ora, la parte europea mezzo miliardo di euro l’anno] hanno raccolto i milioni di pezzi, nell’idea di pulirli, numerarli, ma poi venderli per ripagare i creditori. È un avanzamento passo dopo passo dopo la catastrofe. Lehman Brothers Holdings, la capogruppo americana oggi affidata allo studio newyorkese Alvarez and Marsal, ha per esempio venduto una catena di hotel presente da Assisi a Da Nang, nel Vietnam centrale; ha incassato i dividendi dalla Formula Uno, di cui è azionista; ha ricevuto rimborsi per 176 milioni di dollari da un prestito a Endemol, la società che produce format tivù come «Il grande fratello » o «Che tempo che fa»”.

Subito prima del fallimento, rivela Federico Fubini, Lehman stava per eseguire quello che in segreto aveva battezzato “Project Palio”:

“comprare una quota estremamente rilevante del Monte dei Paschi di Siena, con opzioni a salire ancora di più nel capitale in un secondo tempo. Una banca che stava per fallire stava per comprare un’altra banca che di lì a poco sarebbe stata sull’orlo del fallimento. Dipanare la matassa a quel punto sarebbe diventato impossibile, la perdita molto più alta.

Invece pian piano sono andate sul mercato a ottimi prezzi le quote in mano a Lehman della Sator di Matteo Arpe, del fondo semi-pubblico F2i o di partecipazioni immobiliari in Prelios, Aedes, Beni Stabili e Cordea Savills. Con quei proventi, creditori come Intesa Sanpaolo, Unicredit, Unipol o la stessa Mps sono stati rimborsati non del tutto, ma per quote sostanziali. Si stima che la parte italiana di Lehman Europe oggi sia indennizzata all’85%.

Una prima occhiata agli Stati Uniti mostra che lì tutto è più difficile. La banca commissariata avrebbe attività nominalmente da circa 240 miliardi, ma ha tirato fuori denaro solo per 94 e stima ulteriori proventi per altri 13. In più ha aperti contenziosi per altre decine di miliardi di dollari, di cui uno per 15 miliardi su un pacchetto di derivati con Jp Morgan Chase.

Dietro la contabilità c’è però il trauma di quello che un ex addetto Lehman di New York definisce «uno squalo che sanguinava nell’acqua e gli altri predatori volevano divorare».

Poiché il Tesoro Usa e la Fed le rifiutavano un finanziamento-ponte, nelle settimane subito prima del fallimento la banca ha dovuto svendere titoli in bilancio per una quantità imprecisata di miliardi. La sola certezza è che, con l’America in ripresa, quelle posizioni un tempo di Lehman ora valgono molto di più. Ci sono poi i derivati della banca, un colossale libro da 39 mila miliardi di dollari di valore teorico: Alvarez and Marsal stima che il caos della morte traumatica dell’istituto abbia causato perdite da 50 miliardi, altri le ritengono da 80”.