ROMA – Marco Travaglio dedica il suo editoriale di domenica 15 giugno al caso Mose, a Giorgio Orsoni, ex sindaco di Venezia costretto alle dimissioni da Matteo Renzi. Articolo ineccepibile e inesorabile nella logica del ragionamento. Il ragionamento purtroppo manca di una gamba. Marco Travaglio vede il tema in una esclusiva ottica giudiziaria e questo ingabbia il processo di pulizia della vita pubblica negli schemi dell’intervento giudiziario. In quell’ottica, peraltro, si è probabilmente mosso anche Matteo Renzi, cosa di cui Marco Travaglio appare convinto.
Ma non ci possono essere solo i giudici a determinare i ritmi della vita pubblica, ci sono anche dei principi etici che ne possono prescindere. Giorgio Orsoni è colpevole sul piano etico, anche se i giudici lo assolveranno in tribunale, perché le mazzette le ha prese, punto. Lo dimostrano le intercettazioni, le testimonianze, per questo, perché lo dice il mio senso morale, Giorgio Orsoni non può più rappresentare Venezia, anche se un giorno un giudice dirà che il fatto non costituisce reato.
Avere lasciato alla magistratura il controllo dell’etica, i politici italiani hanno provocato un corto circuito politico: per questo i cittadini non votano più, per questo il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo è il secondo partito. Purtroppo questa connessione sfugge a Marco Travaglio. Leggiamolo:
“Scaricando Giorgio Orsoni e facendogli comunicare da Debora Serracchiani l’ingiunzione di sfratto con effetto immediato, Matteo Renzi ha dimostrato tre cose.
1) Di essere coerente nei fatti con le cose che dice (il che non vuol dire che le cose che dice siano sempre giuste, infatti a volte non lo sono).
2) Di aver interpretato al volo gli umori dell’opinione pubblica che, specie in questo momento, sulla questione morale si attende da lui segnali di discontinuità.
3) Di non essere ricattabile – lui come i suoi – né da Orsoni né dalla struttura del Pd che nel 2010 gli consigliò amorevolmente di andare da Mazzacurati a batter cassa per la sua campagna elettorale.
Le dimissioni imposte a Orsoni, nonostante i messaggi che questi lanciava al partito con vere e proprie chiamate in correità, potevano far pensare che il capo del governo e del Pd pensasse di cavarsela con così poco, lasciando il caso Venezia a metà. Invece ieri Renzi ha invitato chiunque sia a conoscenza di casi di malaffare nel Pd a precipitarsi in Procura a denunciarli.
Il che dimostra un’altra cosa: che ha capito come Orsoni non sia una bestia rara nello zoo democratico, una mela marcia in un cestino di mele sane. E cioè che l’ormai ex sindaco di Venezia tende comprensibilmente a minimizzare le proprie colpe, ma non mente quando racconta come, da insigne giurista e docente di Diritto amministrativo a Ca’ Foscari, si trasformò in poche ore in un tangentaro non appena accettò la proposta del Pd di candidarsi: in quel preciso istante i dirigenti veneti del Pd gli dissero di andare a batter cassa da Mazzacurati, patron del Consorzio Venezia Nuova, una società pubblica che per legge non può finanziare partiti né singoli uomini politici, né in nero né in chiaro. E lui obbedì.
Insomma, si mise in moto quella che i pm definiscono la “strategia di finanziamento occulto elaborata dai vertici del partito”. Vertici locali o nazionali? Il bonifico del Consorzio alla fondazione di Enrico Letta una risposta la dà. Ma allora Renzi dovrebbe smantellare quella struttura occulta, fatta di uomini defilati usi a obbedir tacendo e tacendo rubar. Magari chiedendo lumi ai tanti capataz della vecchia guardia che ora stanno con lui.
Poi dovrebbe chiarire, a se stesso, al Pd e al Paese, un concetto confuso e pericoloso, da lui esplicitato nell’intervista al Fatto prima delle Europee:
“Ho portato alcuni indagati nel mio governo e al Parlamento europeo perché sono tutti innocenti fino a condanna in Cassazione”.
Infatti Renzi non ha preteso le dimissioni di Orsoni quando è stato arrestato. Ma – anticipando il giudizio della Cassazione, cui chi patteggia può sempre ricorrere – quando ha confessato e chiesto di concordare la pena. Il che, per Renzi, equivale a una sentenza definitiva.
Viene in mente un episodio di Tangentopoli: nel ’93 il mazzettaro dc Mongini, appena confessò, fu espulso dal segretario Forlani perché “con le affermazioni fatte ha creato sconcerto nella pubblica opinione”. Lui commentò sarcastico: “Mi han cacciato non per quello che ho fatto, ma per quello che ho detto”.
È così anche per Orsoni? Pare proprio di sì: se avesse negato tutto e atteso il processo, sarebbe rimasto sindaco fino al terzo grado di giudizio; invece ha parlato e si è fregato da sé. Ma allora che senso ha l’appello di Renzi a denunciare le tangenti? Chi le conosce è perché o le paga o le prende. Ma, se le denuncia e patteggia la pena scontata di un terzo, si stronca ipso facto la carriera. Dunque non ha alcun interesse a farlo: gli conviene star zitto, sperare di non essere scoperto, e se poi lo fosse negare tutto e affrontare il processo, che 9 volte su 10 finisce in prescrizione, che tutti scambiano per assoluzione. E resta al suo posto.
Dunque si torna sempre al punto di partenza: il politico raggiunto da sospetti gravi e precisi deve dimettersi sia che confessi sia che neghi, e solo se verrà assolto potrà tornare. Se invece Renzi persevera sulla presunzione di innocenza intesa come rifugio delle canaglie, qualunque cosa dica si ritorcerà contro di lui. E di Orsoni gliene arresteranno uno alla settimana”.
Negli Stati Uniti, dove sono probabilmente più corrotti di noi ma anche più bravi, la Camera dei loro deputati ha un Comitato Etico che non è organo difensivo della classe politica ma organo investigativo che prescinde dalle scelte giudiziarie. Non risolve certo il rapporto con i cittadini, i quali da secoli continuano a pensare che i loro politici siano tutti corrotti e ladri, ma almeno trasmette l’immagine che qualcosa si fa, non in difesa (autorizzazioni a procedere) ma in attacco.