Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano: “Lo Statuto Giorgino”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 10 Ottobre 2014 - 08:11 OLTRE 6 MESI FA
Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano: "Lo Statuto Giorgino"

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano: “Lo Statuto Giorgino”

ROMA – Dopo l’ordinanza della Corte d’Assise di Palermo – scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano – che vieta agli imputati e alle parti civili di presenziare al loro processo perché il testimone Napolitano non li vuole e dopo la sentenza del Tribunale di Roma che condanna due bersagli fissi su Sua Maestà, De Magistris e Genchi, per abuso d’ufficio senza competenza né danno ingiusto, cioè senza reato, s’impone un lesto ritorno allo Statuto Albertino. Art. 2: “Lo Stato è retto da un Governo Monarchico Rappresentativo”. Art. 3: “Il potere legislativo è collettivamente esercitato dal Re e da due Camere”. Art. 4: “La persona del Re è sacra ed inviolabile”. Art. 6: “Il Re nomina a tutte le cariche dello Stato; e fa i decreti e regolamenti necessari per l’esecuzione delle leggi” Art. 7: “Il Re solo sanziona le leggi e le promulga”. Art. 68: “La Giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo Nome dai Giudici ch’Egli istituisce”.

L’articolo completo:

 

Così si giustificherebbero almeno ex post le due supercazzole giudiziarie e anche tante altre cose che accadono in Parlamento, al governo, nel Csm e nei cosiddetti istituti di garanzia, del tutto ignoti alla Costituzione Repubblicana. Il processo sulla trattativa Stato-mafia potrà essere dichiarato nullo dalla Corte d’appello, o dalla Cassazione, o dalla Corte europea dei diritti dell’uomo su richiesta di qualunque imputato o parte civile esclusa dall’udienza sul Colle. Ma gettare la croce addosso ai giudici che ieri vi hanno inoculato quella dose di veleno letale sarebbe ingeneroso. Convinti ingenuamente di vivere in una Repubblica democratica dove la legge è uguale per tutti, avevano convocato come teste Sua Altezza Reale e s’erano ritrovato addosso i dobermann del Quirinale, del governo, dei partiti e della stampa serva. Se avessero osato preferire un’altra volta la Costituzione e il Codice di procedura alla legge di Sua Maestà, non ne sarebbero usciti vivi: sarebbero stati trascinati, come già i pm, dinanzi alla Consulta e fucilati in effigie sulla pubblica piazza, previa fustigazione a mezzo stampa e tv. Esattamente quel che sarebbe accaduto ai giudici di Roma se si fossero azzardati ad assolvere De Magistris e Genchi, dopo che Napolitano e il solito Mancino avevano dato la linea fin dal 2009 dai vertici del Csm, cacciando prima il pm da Catanzaro, poi i tre pm di Salerno che indagavano sulle sue denunce, poi Clementina Forleo che l’aveva difeso. Le motivazioni di certi provvedimenti sono imbarazzanti soprattutto per chi le scrive, però aiutano a capire le motivazioni delle motivazioni. Per la Corte di Palermo, Riina e Bagarella collegati in videoconferenza col Quirinale e Mancino presente nell’ufficio dell’amico con i parenti dei caduti in via dei Georgofili avrebbero violato “le prerogative di un organo costituzionale qual è il presidente della Repubblica” e l’ “immunità della sua sede”, minacciando financo l’ “ordine pubblico e la sicurezza nazionale”. Mancino si sarebbe avventato su Re Giorgio che non gli risponde più al telefono? I boss avrebbero potuto sbucare dal video e piazzare una bomba sotto la sua scrivania? Dai, su, siamo seri. Ancor più avvincenti i motivi della condanna di De Magistris e Genchi. I due imputati sostenevano che, per chiedere al Parlamento l’autorizzazione a usare tabulati di telefoni in uso a parlamentari, bisogna prima acquisirli per sapere a chi sono intestati, quali numeri li chiamano e ne sono chiamati, e da quali celle territoriali, per accertare se il telefono lo usa il parlamentare o magari un parente, un portaborse, un amico sprovvisto di immunità. Ma il Tribunale di Roma taglia la testa al toro: basta che un telefono venga sfiorato da un parlamentare e diventa di per sé immune, anche se lo usa un altro che parlamentare non è. L’immunità è contagiosa, come il virus Ebola. Quindi, se un ladro ruba il cellulare a un onorevole e poi ci organizza una rapina, per indagare occorre il permesso della Camera. Fanno tenerezza i mafiosi che seguitano a mandarsi pizzini di mano in mano. Ma anche il vecchio Moggi, che dotava gli arbitri di Sim svizzere per non farsi intercettare. Beata ingenuità: basta farsi prestare il telefono da un amico parlamentare, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Signori delle Corti, abbiamo capito.