Matteo Renzi. Ministri castigati: Orlandi, Delrio, Madia, vietato straparlare

di Redazione Blitz
Pubblicato il 2 Luglio 2014 - 11:31 OLTRE 6 MESI FA
Matteo Renzi. Ministri castigati: Orlandi, Delrio, Madia, vietato straparlare

Matteo Renzi (LaPresse)

ROMA – Matteo Renzi è un direttore d’orchestra esigente, non ammette che si suoni fuori del coro. Per questo Graziano Delrio che già si sentiva vice premier è precipitato nel cono d’ombra, non per il disastro delle province, abolite per aumentare i dipendenti e i costi, ma solo dopo averle sparate un po’ grosse in una intervista al Corriere della Sera, che ha creato un non piccolo imbarazzo a livello europeo per Matteo Renzi.

Lo stesso sta accadendo a Andrea Orlando e a Marianna Madia. La cosa non piace in giro ma c’è da dire che non siamo mai contenti. L’Italia è finita nel guano e Beppe Grillo è arrivato al 25 per cento dei voti un anno fa non per colpa degli italiani ma per colpa di chi la dirige, politici e burocrati.

Ora c’è un primo ministro che prova a strattonare questa giungla di liane, a pulire l’acqua della palude. Lo fa un po’ rozzamente, in modo poco elegante, ma è la nostra ultima speranza. Inutile criticare Renzi sui modi, tipico del birignao della sinistra da salotto, meglio pregare che con tutti i suoi funambulismi e anche bugie ce la faccia, cosa che è tutto meno che certa.

Interessante è leggere i due articoli del Fatto che danno un quadro del Governo Renzi dietro la facciata dei titoli dei giornali e gli strilli della tv. Sono da antologia dei sistemi di comando e di gestione.

Wanda Marra scrive:

Non lo so”, “decide Matteo”, “il Presidente non l’abbiamo visto”: capita spesso di provare a informarsi su provvedimenti di Palazzo Chigi, o sulle mosse prossime venture del governo e del Pd e di sentirsi rispondere così. In genere non è reticenza: è che proprio Renzi “balla da solo”, per usare la metafora di un dirigente Dem. E dunque, tende a fare tutto lui, delega il meno possibile, vuole l’ultima parola su qualsiasi cosa, non si fida praticamente di nessuno.

Lunedì ha incontrato a ora di pranzo Andrea Orlando, il Guardasigilli che aveva pronti una serie di provvedimenti, e gli ha chiarito non solo che la riforma della giustizia era rimandata, ma che poi nel merito avrebbe deciso lui. Per chiudere la bozza d’entrata in Cdm del provvedimento sulla Pa, il ministro Madia ha dovuto aspettare che lui tornasse dal Vietnam . E fino a quando Napolitano non ha firmato i decreti, i diretti responsabili non sapevano neanche cosa ci sarebbe stato esattamente nella loro riforma. “Renzi ha leadership ed è giusto che i ministri intorno a lui non siano figure forti. Potrebbero essere solo elementi di disturbo”, commentava qualche corrispondente straniero il giorno del giuramento. Uno spunto che Renzi segue alla lettera. “Maria Elena, hai le slide? Ah, ma queste sono slide da secchiona” . Così prendeva in giro la Boschi durante la conferenza stampa di presentazione della riforma del Senato. “Poi Marianna domani vi spiega tutto”, diceva nel Cdm dedicato alla Pa. Quel domani non è mai arrivato. I Cdm sono brevissimi e neanche troppo tesi: c’è poco da discutere. Renzi i ministri competenti li vede prima, sente cosa hanno da dire, poi decide lui. “Non è vero che Matteo non ascolta: ascolta tutti. Magari per pochissimo. Poi sintetizza”, raccontano.

Il “Presidente” vuole avere l’ultima parola anche “tecnica” sulle leggi. Ecco l’imbuto, l’ingorgo. E le incomprensioni: capita che chi lavora con lui neanche sappia esattamente i contenuti dei testi. Gli unici a cui delega-sono quelli del “Giglio magico”: il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Luca Lotti gestisce le trattative per suo conto, magari ci mette la faccia, quando il premier preferisce evitare. La Boschi è la punta di diamante alle riforme: lei ha il mandato, lui ratifica ogni cosa. Il direttore del Dagl, Antonella Manzione, è quella che deve tradurre in legge le volontà del premier. Graziano Delrio, Sottosegretario alla presidenza del Consiglio, diverso per carattere ed esperienza dai fiorentini ha avuto un ruolo centrale politico nel portare il premier alla guida del governo, ma ora preferisce dedicarsi a gestire una serie di partite amministrative centrali (tipo Alitalia). Molti lo vedono pronto per il Colle. Chiunque ha una certa autonomia fa fatica a sopravvivere accanto a Renzi. A Palazzo Chigi il premier non ha neanche una segretaria: si appoggia alla struttura, per molte cose fa da solo.

Al partito, viceversa, Renzi è quasi assente. La segreteria praticamente non esiste. Da quando è diventato premier, la metà si è trasferita con lui al governo (Boschi, Lotti, Madia). Matteo ha nominato due vice segretari, Guerini e Serracchiani. Soprattutto al primo delega ogni pratica complicata e diplomatica. Perché poi il segretario è il lavoro che gli interessa di meno. Tutti gli altri sono sostanzialmente lasciati a loro stessi. Finiti i tempi delle riunioni all’alba. Anzi, le riunioni non si fanno neanche più. “Ma siamo perennemente convocati su Whatsapp”, raccontano loro. Sono mesi che si aspettano nuove nomine per la segreteria. Sempre rimandate perché lui “non ci ha messo la testa”. Quando poi ce la mette, fa quello che vuole: il giorno della chiusura delle liste per le europee, alle 2 di notte, ha mandato sms alle 5 prescelte per comunicare che sarebbero diventate capoliste, azzerando in un istante settimane di trattative. Lacrime delle ragazze, strepiti degli esclusi. La sera prima dell’Assemblea nazionale del Pd ha mangiato una pizza con i fedelissimi e ha ratificato una decisione che aveva preso da settimane: il presidente sarebbe stato Matteo Orfini. Il 17 giugno in un vertice a Palazzo Chigi con governo e Pd ha praticamente scritto l’ultima versione della riforma del Senato, immunità compresa. L’uomo è così: non propone, ma dispone. E se qualcuno prova a contrastarlo c’è lì quel 40,8%. I voti, tipo memento mori (…)

Fabrizio D’Esposito scrive:

L’ostensione di Andrea Orlando e Angelino a mo’ di valletti, l’altro giorno in conferenza stampa a Palazzo Chigi, è l’ennesima conferma che Matteo Renzi tratta i suoi ministri come assessori qualunque, come se non fosse un governo ma una giunta comunale. Il sindaco d’Italia, appunto. Un sindaco-premier che non tollera altri protagonisti splendenti ma solo comprimari ubbidienti.

Quello che è accaduto sulla giustizia è un esempio magistrale del renzismo che non vuole ombre altrui. Il balletto sulla riforma, anzi no sulle linee-guida, anzi no sulla consultazione popolare estiva (sulle spiagge già si registrano capannelli di bagnanti che discutono i dodici punti dell’imbarazzante compitino presentato lunedì), avrebbe generato almeno due veementi cazziatoni di Renzi al Guardasigilli Orlando. Il primo la settimana scorsa, quando Repubblica (il quotidiano più renziano d’Italia a eccezione dell’enclave Scalfari-Giannini) ha pensato di fare uno scoop anticipando pezzi di una riforma che non c’era e non c’è. Rivelano fonti di governo che il premier avrebbe rimproverato con durezza Orlando: “Andrea queste cose le devo gestire io, che non succeda mai più”. Orlando, mortificato, avrebbe provato a difendersi: “Matteo ma io non ne sapevo nulla”. Il ministro della Giustizia, raccontano ancora, non ha fatto in tempo a concludere la frase che il premier aveva già chiuso la conversazione. La scena si è ripetuta ieri mattina, nel day after dei dodici pensierini di lunedì. Orlando avrebbe voluto commentare alcuni editoriali negativi dei quotidiani e la risposta di “Matteo” è stato liquidatoria: “Non preoccuparti, ci penso io”. Clic. Poi rivolto a un deputato amico, Renzi avrebbe sentenziato, secondo l’Huffington Post: “Quanto è moscio questo”.

E’ il “ci penso io” di berlusconiana memoria che Renzi applica soprattutto nel campo della comunicazione. L’agenda setting, la scelta della notizia dominante del giorno, tipica della visione blairiana di Filippo Sensi, lo spin doctor del premier, è un’esclusiva di Palazzo Chigi. E guai a chi devia il corso del marketing renziano, come è capitato appunto, a torto o a ragione, al ministro Orlando. Di qui anche il fastidio per l’intervista di Delrio dell’altro giorno al Corsera. Per i temi trattati, anche delicati e scivolosi, avrebbe dovuto sollevare decine di commenti, invece l’ordine di scuderia è stato: “Non cavalcate l’intervista”. E ieri, poi, è arrivata la smentita sugli eurobond del ministro all’Economia Padoan, con un’altra intervista, stavolta al confindustriale Sole 24 Ore.

Renzi, soprattutto dopo il 40 per cento europeo, vuole brillare da solo. E il suo volto diventa feroce quando qualcosa non va per il verso giusto. Un altro aneddoto significativo riguarda la botticelliana Marianna Madia, destinataria di una battuta sul tormentone giallo del decretone sulla Pubblica amministrazione. A un certo punto, nel Consiglio dei ministri in cui si discuteva della materia, “Matteo” si è girato verso “Marianna” e le ha ordinato: “Che ci fai ancora qui, vatti a preparare che devi andare a Otto e mezzo”. C’è tutto Renzi, e c’è tutto il renzismo nella direttiva alla Madia. Viene in mente una bella e cruda lettera pubblicata da Michele De Lucia nel suo Berluschino, la biografia politica di Renzi. A scriverla un assessore dimissionario della giunta di Firenze: “Caro Matteo tratti i tuoi assessori come servitori e non riusciamo a parlarti se non per alcuni secondi tra una cosa e l’altra”.

Orlando, Delrio, Madia: o ministri maltrattati, o ministri servitori. E due a cui il premier non è ancora riuscito a prendere le misure sono Maurizio Lupi di Ncd e il bersaniano Maurizio Martina. Entrambi si occupano dell’Expo di Milano e questo sta mettendo molto in ansia, ma davvero molto, Palazzo Chigi. Se Lupi avesse optato per il seggio europeo, lasciando le Infrastrutture, Renzi avrebbe sparato i fuochi d’artificio per la gioia. Ma non è successo (…)