Quelle parole radicali del Papa che forse non cambieranno la Chiesa, Piero Ostellino sul Corriere

di Redazione Blitz
Pubblicato il 29 Novembre 2013 - 13:27 OLTRE 6 MESI FA
Quelle parole radicali del Papa che forse non cambieranno la Chiesa, Piero Ostellino sul Corriere

Quelle parole radicali del Papa che forse non cambieranno la Chiesa, Piero Ostellino sul Corriere

ROMA – “Quelle parole radicali del Papa che forse non cambieranno la Chiesa” questo l’editoria di Piero Ostellino sul Corriere della Sera:

Papa Francesco ha fatto due dichiarazioni in (apparente) contrasto con la teologia e la storia della Chiesa di Roma. La prima – «chi sono io per giudicare ?» — mette in discussione, oltre alla stessa autorità pontificia e al sacramento della confessione, il ruolo di mediazione della gerarchia ecclesiastica fra fedeli e Dio che il cattolicesimo istituzionale ha costantemente sostenuto, e ribadito, col Concilio di Trento, dopo che la Riforma protestante l’aveva rinnegato. La seconda — l’attribuzione alla coscienza individuale della funzione di tribunale morale — ripropone la definizione luterana di «sacerdozio universale dei credenti» che esclude la gerarchia ecclesiastica come depositaria e interprete esclusiva della moralità. Paolo Sarpi — un prete, un teologo, uno spirito libero e un testimone che aveva raccontato il Concilio in modo diverso da quello ufficiale — fu assassinato da un sicario, probabilmente incaricato dalla Chiesa di Roma, che se ne riteneva la sola interprete. La cosiddetta Riforma cattolica, che chiamiamo Controriforma, fu la soluzione che la gerarchia romana contrappose alla Riforma protestante di Lutero, generatrice dei prodromi della nascita dello Stato moderno. Essa ha inciso, e continua a incidere, sul pensiero, non solo religioso, ma anche civile e politico degli italiani, impedendo loro di accettare la Modernità.
Il Concilio di Trento fa il paio col Concilio di Nicea (325 d.C.), dove furono approvati, e votati a maggioranza (!), alcuni dogmi: 1) la dottrina della consustanzialità del Padre e del Figlio; la negazione che il Figlio sia creato e che la sua esistenza sia posteriore al Padre; 2) la nascita verginale del Cristo: «Gesù nacque da Maria vergine», è la sentenza del Concilio che ci è stata tramandata; 3) la morte e la resurrezione di Cristo; la condanna, come eretica, della dottrina di Ario (arianesimo), che sosteneva che Gesù non avesse natura divina come il Padre.
Questi i precedenti. Ma ciò che mi colpisce, oggi, è che non solo il popolo dei fedeli ma anche la parte secolarizzata e laica del Paese mostra di non essersi accorta della radicalità delle due affermazioni papali. E anche se non dovrei essere autorizzato — a giudicare dalle lettere che ricevo da credenti che, con un rigurgito controriformista, negano a chi non crede persino il diritto di scrivere di questioni della Chiesa — dico ciò che ne penso io. Da agnostico. Non sono credente, ma (solo) un «aspirante credente» che attribuisce — in sintonia con Agostino — alla Grazia divina il dono della Fede e attende, perciò, senza indulgere al facile e ottimistico fideismo, d’esserne (eventualmente) toccato, e raggiungere quella Fede che, non per sua volontaria scelta, bensì per evidente disposizione di Dio creatore, non ha. Il mio modo di guardare al rapporto fra religione e Chiesa è quello di chi non esclude l’esistenza di Dio, ma neppure ci crede, perché «sa di non sapere». È lo stesso sentimento dal quale erano animati gli illuministi del Settecento, allorché, senza negare l’esistenza di Dio, giudicavano la Chiesa del loro tempo un’istituzione storica oppressiva e responsabile dell’oscurantismo di cui soffriva l’umanità. «Abbi il coraggio di pensare con la tua testa», raccomandava Kant nel celebre articolo sull’Illuminismo.
Non sono un teologo e neppure tanto irresponsabile da voler fare il verso — 500 anni dopo ! — a Lutero e da presumere di fondare una nuova teologia alternativa a quella della Chiesa romana. Sono solo un liberale che segue il consiglio di Kant di pensare con la propria testa; che diffida di ogni potere, compreso quello spirituale. Come liberale mi ritengo, culturalmente ed eticamente, debitore del messaggio universalista di Gesù Cristo che, come il liberalismo con l’Individuo, pone la Persona al centro della fenomenologia sociale e politica. Ma, per me, i rappresentanti della Chiesa sono anch’essi quel «legno storto» che è l’Uomo storico; «legno storto» dal quale sarebbe illusorio pensare di trarre qualcosa di dritto solo perché indossa l’abito rosso dei cardinali o bianco del Papa.
Il Conclave che elegge il Pontefice è, ai miei occhi — absit iniuria verbis — un consesso di uomini divisi in fazioni, l’una in competizione con l’altra per la conquista dell’enorme potere, le «divisioni del Papa» di cui parlava Stalin, di interpretare e prescrivere la propria idea di dottrina alla comunità dei credenti, secondo la (contingente) convenienza, di una istituzione secolare. Insomma, se vogliamo metterla giù laicamente dura, ma anche col rispetto storicamente dovuto, il Conclave è, ai miei occhi, una sorta di «congresso di partito» (della Chiesa) sui lavori del quale i suoi protagonisti, a parziale giustificazione delle proprie scelte, dicono presieda una sovrastruttura ideale che chiamano Spirito Santo.
A differenza di quanto mostrano di credere i fedeli, non credo, perciò, che le estemporanee sortite di Papa Francesco siano un tentativo di riforma della Chiesa. Penso piuttosto siano, oltre che il riflesso di una certa, e umanissima, inclinazione personale, la manifestazione della spartizione delle spoglie da parte della fazione vincente che ha eletto il Papa. Del resto stanno a testimoniarlo i cambiamenti che, puntualmente, sopravvengono nelle più alte sfere del governo vaticano dopo ogni elezione di Pontefice. Non c’è nulla di scandaloso, intendiamoci, ma è anche indubbio che in tale prassi ci sia una componente umana comprensibile, e persino giustificabile, e non affatto un’induzione religiosa… 
In conclusione e in definitiva. Ritengo che il mandato di Cristo a Pietro — «fonderai la mia Chiesa» — si sia trasformato, nel corso dei secoli, con la sua formalizzazione istituzionale, nel dominio di alcuni uomini su altri uomini, che non di rado si è persino rivelato feroce. Sulla base, mi si perdoni l’espressione cruda, di un «abuso di Dio», simmetrico all’«abuso della ragione» frutto della degenerazione del razionalismo che ha prodotto i totalitarismi del XX secolo. Non credo, perciò, né blasfemo né scandaloso auspicare il ripristino della distinzione fra religione e Chiesa, riflettendo su ciò che essa è diventata ad opera, e al servizio, di quel «legno storto» attento al proprio potere, che sono, piaccia o non piaccia, anche gli uomini di Chiesa. Non credo, perciò, di fare scandalo sostenendo che anche il credente, che conti responsabilmente sul proprio libero arbitrio, abbia diritto di pensare con la propria testa e di rifiutare, eventualmente, certe prescrizioni imposte dal dominio di un’Autorità alla quale, dopo le non sempre esemplari esperienze del passato, sarebbe difficile dare credito più di quanto non meriti qualsiasi altra autorità umana.
Voglio credere che la comparsa sul soglio pontificio di questo singolare gesuita non sia un accidente, bensì un’«astuzia della storia» o, se vogliamo, una (felice) manifestazione della Provvidenza. Grazie alla quale il buon Dio non ci viene raffigurato come il giudice implacabile, troppo simile all’Uomo, il «legno storto dell’umanità», per non essere assai poco cristianamente caritatevole. Raffigurazione a lungo propinata ai credenti da una Chiesa molto terrena e molto attenta al proprio potere, per vantare un fondamento divino e che, oggi, invece si rivela — finalmente ! — per bocca di Papa Francesco, nella sua infinita misericordia.