Il Pd di Pier Luigi Bersani: un partito “indeciso a tutto”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 4 Aprile 2013 - 06:00| Aggiornato il 9 Dicembre 2022 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Il Pd di Pier Luigi Bersani: un partito “indeciso a tutto”. Elisabetta Gualmini su La Stampa, in un editoriale dal titolo “Un partito a rischio implosione”, racconta il lento accartocciarsi dei democratici nel falò della propria inanità:

[…] Sarebbe l’atto finale di una lunga deriva. Il punto di non ritorno per un partito senza bussola da tempo. In assenza di un coup de théâtre che per ora sfugge, l’accanimento terapeutico di Bersani (su se stesso) e il tentativo di pescare voti in Parlamento mettendo un menu à la carte a disposizione di qualsiasi interlocutore sta portando dritto all’implosione dei democratici. Con l’aggravante di aver temporeggiato rievocando la liturgia degli incontri con le parti sociali, dalle più rilevanti a quelle poco sopra la soglia della riconoscibilità, le quali hanno ripetuto com’era già ovvio che il Paese è alla canna del gas. Lo sappiamo con certezza almeno dal 2009, quando in un anno rispetto al 2008, il Pil si ridusse di oltre il 5%, bruciando quasi la metà della ricchezza prodotta nei precedenti 10 anni. Dopo le cose non sono andate meglio.

L’indizio di un avvitamento che sarebbe diventato mortale, per il Pd, lo si vede da tempo. È la diretta conseguenza di una strategia di totale chiusura all’interno, dell’ossessione di voler parlare soprattutto ai propri elettori tradizionali, paradossalmente compensata dal massimo dell’eclettismo nelle alleanze esterne. Senza alcun distinguo. Senza disdegnare nessuno (dai radicali all’Udc, da Monti a Grillo, da Maroni a don Ciotti, da Vendola a Montezemolo, da Di Pietro a Grasso). Purché lontani dal nocciolo duro del partito. Qualsiasi cosa fuori. Muri alzati e tolleranza zero dentro.

Dal 2010 in avanti, il Pd ha cercato di allearsi con l’Udc durante le regionali, mentre nel Lazio sosteneva Emma Bonino. Poi è arrivata la foto di Vasto, un matrimonio ufficializzato con la benedizione della Cgil. Saltando qualche passaggio, è venuto il momento del nuovo Centro montiano, alleato naturale prima delle elezioni. Per poi virare a 360 gradi e andare con il cappello in mano di fronte ai 5 stelle nel post-elezioni. Siamo ora alla ricerca, non tanto nascosta, di un accordo con i Barbari sognanti della Lega (sempre più sovraeccitati intorno al progetto della Macroregione del Nord e al conseguente abbandono al suo destino del Sud), con il benestare del Pdl (il cui aiuto tuttavia si continua pubblicamente a rifiutare). Ovviamente, ciascuna di queste «strategie» di coalizione ha comportato un nuovo «posizionamento». Dalla piena responsabilità verso i vincoli europei con Monti, al superamento della sua agenda, dalla difesa delle province ai tagli draconiani della politica.

Eppure, nonostante questa strabiliante flessibilità, Bersani si dimostra inflessibile verso l’unica formula che parrebbe ragionevole al senso comune, e forse anche all’intuito di chi vede le cose dal colle più alto.

Tanto che il breve discorso, stanco e crepuscolare, del segretario, potrebbe addirittura suonare come un freno preventivo al Presidente Napolitano, il quale molto probabilmente proporrà, per salvare il salvabile, un governo di tutti e di nessuno, a tempo determinato, con obiettivi ben precisi di riforma delle regole istituzionali. Un messaggio forse più vero ma molto diverso da quello che Bersani aveva lanciato nella Direzione del 6 marzo: «Siamo alternativi al populismo. Siamo nelle mani del Presidente della Repubblica».