Prelievo pensioni d’oro, “il contratto tradito”. Piero Ostellino sul Corriere

di Redazione Blitz
Pubblicato il 25 Agosto 2014 - 15:23 OLTRE 6 MESI FA
Prelievo pensioni d'oro, "il contratto tradito". Piero Ostellino sul Corriere

Prelievo pensioni d’oro, “il contratto tradito”. Piero Ostellino sul Corriere

ROMA – Il prelievo del governo Renzi sulle pensioni cosiddette d’oro non rispetta il patto tra cittadini e lavoratori. E’ questo il parere di Piero Ostellino, che ha scritto un editoriale sul Corriere della Sera, intitolato appunto “il contratto tradito”.

La tesi di Ostellino è che persone che hanno già pagato dei contributi per la pensione e che hanno già pagato le tasse in età lavorativa, si trovano a ripagare altre tasse anche durante la pensione.

Questo l’articolo integrale:

L’ipotesi governativa di toccare le pensioni cosiddette alte per aiutare gli esodati – i lavoratori che, in forza di una legge, non hanno più un lavoro, ma neppure la pensione – ferma l’orologio delle riforme alla redistribuzione della ricchezza (si toglie a qualcuno per dare ad altri) già praticata dai governi precedenti e che ha portato l’economia nazionale nella depressione della crescita zero.

La previdenza è una sorta di contratto che il lavoratore stipula con lo Stato, in base al quale, dietro il pagamento di contributi durante gli anni lavorativi, il cittadino riceverà una pensione. L’assistenza è l’aiuto che lo Stato (sociale) fornisce ai meno abbienti attraverso la fiscalità generale. Il nostro Stato – che fa volentieri confusione fra assistenza e previdenza – supplisce alle proprie carenze sociali e finanziarie con la redistribuzione della ricchezza. Questa – che meglio sarebbe definire distruzione di ricchezza – si traduce in una doppia tassazione per chi ha già ha pagato le tasse sui propri guadagni e finisce così col (ri)pagarle, in modo surrettizio, con la sottrazione da parte dello Stato di una parte ulteriore di quegli stessi guadagni. Se, dunque, lo Stato tradisce, o mostra di voler tradire, il contratto previdenziale, non c’è più certezza del diritto, il cittadino non è in grado di programmare la propria vita, smette di spendere, gli investimenti si fermano, lo sviluppo si arresta. Così come ha prodotto la fine del socialismo reale, la forzosa redistribuzione della ricchezza minaccia, da noi, di uccidere l’economia libera.

L’idea di prelevare dalle pensioni cosiddette alte le risorse per aiutare i meno fortunati – facendo pagare l’assistenza a chi ha già pagato previdenza e tasse – è un trucco per supplire ai costi e alle carenze di uno Stato sociale che non aiuta i meno abbienti, ma fa pubblicità a se stesso e produce consenso a chi governa. Il trucco è, a sua volta, reso necessario dalla carenza di risorse, dall’esigenza di reperirle e dalla promessa di riforme che chi ne parla non è, poi, in grado o non ha la volontà politica di fare.

È il caso del governo Renzi – che si ripromette di essere riformista – e si rivela tutt’altro che tale. Esso, che piaccia o no, è uguale ai governi che lo hanno preceduto. Non fa, come non hanno fatto quelli, le riforme, soprattutto quella fiscale e amministrativa, che snellirebbero lo Stato e gli consentirebbero di spendere meglio le risorse di cui dispone. Un’abile e opportuna operazione di marketing a favore di se stesso, diffusa da un sistema informativo inadeguato, ha promosso il governo Renzi a «ultima spiaggia» contro l’eventualità di elezioni anticipate. Che nessuno pare volere. Senza che i cittadini-elettori manco se ne accorgessero, l’Italia è passata, così, dalla condizione di democrazia rappresentativa a quella di democrazia «guidata» da una tecnocrazia.

L’Italia rimane – malgrado l’involuzione istituzionale – un Paese libero. Ciò non toglie, peraltro, che si sia concretata in parte quella rivoluzione sociale, fallendola, che la sinistra filosovietica avrebbe voluto fare subito dopo la fine della guerra. Rivoluzione che la stessa Costituzione in qualche modo ha favorito con le sue ambiguità.

Ancorché condizionata da una burocrazia eccessiva e criminalizzata da una diffusa cultura politica statalista e dirigista, l’economia di mercato è da noi (ancora) relativamente in buona salute. Ma non è neppure il caso di ignorare certi sintomi.