Province, manca il decreto di riordino. Si rischia il caos su risorse e poteri

di Redazione Blitz
Pubblicato il 9 Luglio 2014 - 11:51 OLTRE 6 MESI FA
Province, manca il decreto di riordino. Si rischia il caos su risorse e poteri

Province, manca il decreto di riordino. Si rischia il caos su risorse e poteri

ROMA – Dovevano essere prima abolite, poi ridotte, infine sono state riformate. Le Province hanno perso la caratteristica di enti sottoposti al voto dei cittadini ma per il resto non è cambiato nulla. Almeno per ora: la legge di riordino entrata in vigore l’8 aprile prevedeva che entro tre mesi fossero ridefinite le funzioni da svolgere, in un nuovo equilibrio con Stato centrale e Regioni. Per la stessa data, che è quella di oggi, 9 luglio, era atteso un decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) che doveva stabilire i criteri per individuare risorse finanziarie e umane da trasferire in base appunto alla nuova ripartizione delle funzioni.

Scrive Luca Cifoni sul Messaggero:

Tutto ciò non è ancora avvenuto: pochi giorni fa il ministro degli Affari Regionali Lanzetta ha scritto ai presidenti in carica chiedendo loro la «massima collaborazione» per assicurare nel periodo transitorio, la «continuità dell’erogazione dei servizi a favore dei cittadini». Il riferimento è in particolare alle funzioni «correlate alla sicurezza della popolazione (ad esempio in materia di prevenzione e gestione del rischio idro-geologico e del rischio sismico)». Si raccomanda «l’adozione di ogni iniziativa organizzativa idonea a preservare, in questa delicata fase, la piena operatività delle strutture».

Tutto come prima quindi? Fino a un certo punto. Entro il prossimo 30 settembre devono essere eletti non dai cittadini ma dai sindaci interessati i nuovi vertici provinciali (presidente e consiglio) nel caso in cui gli attuali organi siano in scadenza nel 2014: e questo processo parte senza che ci siano certezze su cosa esattamente le nuove istituzioni dovranno fare. Particolarmente delicata è la partita con le Regioni, ad esempio per compiti come la formazione con annessi fondi europei.

Insieme al nodo delle funzioni c’è quello delle risorse. In questi anni le Province hanno subito come Regioni e Comuni i tagli delle manovre di risanamento dei conti; in proporzione anche più degli altri enti territoriali. E sono state pesantemente colpite sul lato delle entrate, visto che la principale imposta di cui dispongono dipende dall’andamento delle immatricolazioni automobilistiche, crollate nello stesso periodo. Ecco quindi che l’incertezza istituzionale di un periodo transitorio prolungato, unita al diradarsi delle risorse finanziarie, rischia di creare una situazione di caos in alcuni territori, il che probabilmente spiega il richiamo del ministro Lanzetta. Ora il ministero degli Affari regionali (da cui naturalmente non dipendono i tagli di spesa) fa sapere che il Dpcm dovrebbe arrivare entro fine luglio. Ma proprio sul piano finanziario i segnali non sono confortanti. A Parma, escluse le voci incomprimibili come gli stipendi, restano in cassa da qui alla fine dell’anno 300 mila euro: non bastano per fronteggiare un’eventuale emergenza neve. A Grosseto ci sono seri problemi per acquistare il gasolio delle auto della polizia provinciale e di quelle della manutenzione stradale. Anche a Chieti non è garantito il piano neve, e nemmeno il riscaldamento delle scuole. A proposito di scuole, Genova per risparmiare ha deciso la chiusura il sabato. A Lecco balla il trasporto dei disabili, a Perugia è in forse la manutenzione dei bacini d’acqua come Tevere e Trasimeno.

Carlo Tecce, sul Fatto Quotidiano, aggiunge:

Graziano Delrio, all’epoca ministro agli Affari Regionali, voleva consegnare ai sindaci uno spazio più largo, da gestire assieme, e non più la colletta di prebende che le Province smistavano dai capoluoghi regionali: meccanismi più fluidi, risparmi, anche se il numero di amministratori non scompariva (e non è un particolare da poco). Ma in novanta giorni – la legge per il riordino è entrata in vigore l’8 aprile – Lanzetta e governo non sono riusciti a plasmare le nuove Province. I dipendenti restano dove sono. I campi d’azione restano come sono. E i soldi da consumare, seppur non esistano, vanno trovati perché, e i sindacati annusano l’immobilismo di un renzismo iperattivo, ci sono le buste paga da riempire. I ritardi s’accumulano.

E nel groviglio provinciale, il governo aggiunge la riforma per la Pubblica Amministrazione di Marianna Madia: dovrebbe far traslocare i dipendenti provinciali dagli uffici, ma verso quali destinazioni? I decreti attuativi, che stanno a marcire nei ministeri dove la burocrazia è quel buco nero che inghiotte capi più o meno disinvolti di qualsiasi governo, sono diventati un intralcio, un Mineo o un Chiti inanimato, anche per Matteo Renzi. S’è fatto cupo, il premier: “Una questione molto seria. Ne parliamo giovedì in consiglio dei ministri. Così non va bene”. Renzi deve mostrare qualcosa e, proprio per giovedì, potrebbe declamare la nuova struttura di palazzo Chigi: meno dipartimenti, in sintesi.

In quel luogo, in Cdm a palazzo Chigi, vengono licenziati tanti provvedimenti che, nei fatti, non prendono mai vita. Ci sono i 200 milioni di euro annui di credito d’imposta per la Ricerca che rimbalzano da Enrico Letta a Renzi senza soluzione, senza prescrizioni, senza nulla di concreto. E poi dicono che la Ricerca è importante. Come sarà importante la spending review: il 24 aprile viene deliberata la fragile impalcatura che sostiene gli 80 euro mensili, una prima cura di tagli, che dovrà crescere, aumentare, diventare strutturale: per sempre. Il commissario Carlo Cottarelli, il signor spending review, se ne lamenta in pubblico e in privato. Non ci sono neppure le dieci righe che servono a ridurre la auto blu per sottosegretari e singoli ministeri, che Renzi in conferenza stampa s’è venduto con invidiabile capacità comunicativa. E non ci sono i regolamenti per piallare e (ri)modulare la spesa nei dicasteri: 240 milioni di euro in milioni di rivoli, mica spigolature.

Il tempo gioca (ancora) al fianco del premier. Ma le scadenze non sono lontane e i decreti attuativi di sua proprietà che mancano sono più di 50: 14 hanno superato i termini, altri rischiano la stessa sorte. I 50 di Renzi vanno sommati al gruzzolo di Letta-Monti, e s’arriva a 679. Chi ha il coraggio, può scorgere i rottami di Berlusconi in retrovia, e si decolla a 800.