Renzi, dov’è finito il Jobs Act? Tino Oldani su Italia Oggi

di Redazione Blitz
Pubblicato il 5 Febbraio 2014 - 11:50 OLTRE 6 MESI FA
Renzi, dov'è finito il Jobs Act?

Renzi, dov’è finito il Jobs Act?

ROMA – Renzi, dov’è finito il Jobs Act? la domanda è di Tino Oldani di Italia Oggi:

Anche nel Pd molti cominciano a chiedersi dove sia finito il Jobs Act di Matteo Renzi. La curiosità è dovuta al fatto che, dal giorno del suo annuncio ufficiale, è trascorso un mese, ma un testo scritto, una bozza di legge vera e propria, non si è ancora visto.

Come un mese fa, siamo fermi all’elencazione dei settori sui quali il Pd vorrebbe intervenire, con indicazioni piuttosto generiche, e non è neppure chiaro se il Jobs Act entrerà a far parte dell’agenda di governo, nota come «Impegno 2014», su cui il premier Enrico Letta freme da giorni, in attesa delle indicazioni di Renzi e del via libera decisivo, previsto per giovedì 6 febbraio, quando si riunirà la direzione Pd.

Nell’attesa, alcuni esperti hanno già fatto pollice verso. Italia Oggi ha reso noto il giudizio negativo di Giuliano Cazzola, che considera il Jobs Act di Renzi un tentativo confuso e malriuscito dei «pischelli» della segreteria Pd di introdurre qualche semplificazione in una materia, il diritto del lavoro, di cui sarebbero completamente digiuni. Per questo, sostiene Cazzola, è di gran lunga preferibile il progetto di riforma del lavoro presentato in Parlamento da Angelino Alfano (Nuovo Centrodestra), che si è avvalso dell’esperienza dell’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi e della filosofia che ispirò la legge Biagi per mettere a punto delle norme al passo con i tempi, «in grado di rispondere alle esigenze dei nuovi modelli produttivi, e più in generale dei sistemi economici al tempo della globalizzazione».

Anche l’economista Francesco Forte ha bocciato il progetto di Renzi per manifesta inutilità: «Il vero Jobs Act esiste già ed è la legge sul lavoro che esiste in Germania: basterebbe copiarla per dare una svolta anche al nostro Paese». Una svolta soprattutto su due punti: «I cosiddetti contratti precari vanno resi liberi e flessibili sia in entrata che in uscita. E il modello Marchionne va legalizzato, approvando una nuova legge sulle rappresentanze sindacali». Un punto, quest’ultimo, che accomuna Francesco Forte al progetto Alfano, in quanto antepone i contratti aziendali (il modello Marchionne-Fiat) a quelli nazionali, e riconosce come legittime solo le rappresentanze dei sindacati aziendali che firmano il contratto.

Il riferimento di Forte alla legge tedesca sul lavoro non sembra affatto casuale. Molti sono convinti che sia stata proprio la «riforma del lavoro Hartz» varata in Germania undici anni fa dal governo socialdemocratico di Gerhard Schroeder a rendere più competitiva l’economia tedesca, con l’introduzione dei mini-jobs, di una maggiore flessibilità nei contratti, e con una drastica riduzione delle protezioni per i disoccupati. Ma a Forte deve essere sfuggito che, tra le novità del Jobs Act, vi è proprio l’introduzione di «un assegno universale per chi ha perso il lavoro, anche per chi oggi non ne avrebbe diritto», che assomiglia a una misura analoga esistente in Germania e in altri Paesi europei con il nome di «salario minimo garantito», oppure come «aiuto per il sostentamento», pagato dallo Stato a condizione che il beneficiario (chiunque tra i 18 e i 65 anni) accetti il primo lavoro che gli viene offerto. La novità non è di poco conto. È dal 1992 che l’Europa raccomanda l’introduzione del salario minimo, che oggi solo due Paesi non hanno: l’Italia e la Grecia. Da noi ci aveva già provato Romano Prodi. Un fiasco. Ora ci riprova Renzi. Ma la sinistra del Pd, quella più legata alla Cgil, teme che sia proprio questo «assegno universale» il cavallo di Troia con cui il sindaco di Firenze si ripromette di scardinare l’attuale normativa sul lavoro, colpevole a suo avviso di dividere i lavoratori in due categorie: da una parte i tutelati con il posto fisso e la cassa integrazione, dall’altra i non tutelati con i contratti precari e nessun sussidio in caso di perdita del lavoro.

Di fatto, con «l’assegno universale», si introdurrebbe un sussidio unico per chi perde il lavoro e per chi il lavoro non l’ha mai avuto (i giovani), con il risultato di cancellare una volta per tutte la cassa integrazione, che per Renzi ha il difetto grave di salvare il posto ma non il lavoro. Di più: con il contratto unico a «tutela decrescente», dopo i primi tre anni tutti i neoassunti potrebbero essere licenziati, dietro pagamento di una indennità: e questo sancirebbe una volta per tutte la fine dell’articolo 18 sulla giusta causa per i licenziamenti.

Tutto ciò non è ben visto dalla Camusso e dalla componente filo-Cgil del Pd, in quanto il sindacato finirebbe con il non contare più nulla. Ed è probabilmente su questo scoglio, oltre che sull’entità dei costi dell’assegno universale (le stime variano, ma arrivano fino a 20 miliardi!), che la stesura della bozza legislativa del Jobs Act sta incontrando delle difficoltà. Non solo. Diventare tedeschi in materia di diritto del lavoro comporta l’introduzione dei mini-jobs, che in Germania danno diritto a 400 euro netti al mese, sui quali le aziende pagano solo un’aggiunta previdenziale del 23 per cento previdenziale e nessuna tassa ne per i datori di lavoro né per i dipendenti part-time).

Se per i giovani senza lavoro, ma anche per i disoccupati anziani, i mini-jobs sono stati una boccata d’ossigeno, ancora di più lo sono stati per le aziende tedesche, che, di fatto, si sono viste regalare da un governo di sinistra la flessibilità più spinta. Invece di assumere un lavoratore regolare a tempo indeterminato a 1.200 euro al mese, più i contributi, in questi dieci anni molte aziende (ma, in pratica sono solo ristoranti, o famiglie, non certo fabbriche) hanno potuto assumere tre lavoratori mini-jobs, con un guadagno di produttività formidabile, che ha fatto volare le esportazioni tedesche. Risultato: oggi in Germania vi sono più di 5 milioni di lavoratori mini-jobs sottopagati, che per vivere fanno il secondo e a volte il terzo lavoro in quanto i mini-jobs sono cumulabili ma solo fino a 700 euro al mese. Grazie a tutto questo, in Germania la disoccupazione è su livelli minimi, e nessuno si lamenta per la disoccupazione giovanile, come avviene in Italia. L’assenza dei mini-jobs provoca, come capita, in Italia lavoro nero dove lo Stato non prende un euro in tasse e per il dipendente non c’ènemmeno un euro di contributi previdenziali. Ma è davvero questo il modello su cui punta Renzi? Nel caso, è sicuro di farcela?