Renzi-Marino e salva Roma, Crimea: prime pagine e rassegna stampa
Pubblicato il 28 Febbraio 2014 - 08:25 OLTRE 6 MESI FA
Il Corriere della Sera: “Così cambieranno casa e fisco”. Il peccato capitale. Editoriale di Paolo Conti e Sergio Rizzo:
A Roma si sta consumando il fallimento di una intera classe dirigente, per non dire di tutti gli italiani. Tanto sconcertante è la superficialità con cui la capitale di una delle prime dieci potenze economiche ha rischiato il fallimento per la seconda volta in sei anni. Già al tempo del primo crac, nel 2008, un Paese serio avrebbe imposto un rigoroso piano di risanamento strutturale dei conti comunali. Ma qui non è avvenuto. Le cronache ci hanno anzi raccontato, dagli scandali di parentopoli in poi, di un progressivo decadimento finanziario, qualitativo e persino morale. Fino al capolavoro di questi giorni, quando il Palazzo si è mostrato di nuovo incapace di porre rimedio all’emergenza dei conti del Campidoglio. Le colpe sono equamente distribuite fra un governo pasticcione e un Parlamento con scarso senso di responsabilità, ma anche una amministrazione debole e frastornata. Nessun sindaco al mondo avrebbe minacciato di bloccare la città per ritorsione, e bene ha fatto Renzi, sindaco pure lui fino a ieri, a mostrargli i denti.
Questa clamorosa débâcle collettiva trova raffigurazione plastica nello stato di degrado in cui versa un luogo simbolo dell’unità nazionale. Nell’indifferenza generale la Breccia di Porta Pia è assediata dai rifiuti, ridotta a rifugio notturno dei senza tetto. Un trattamento inconcepibile in qualunque altro Paese civile. Il fatto è che Roma non è Parigi, non è Londra, né Berlino, perché l’Italia non è la Francia, non è la Gran Bretagna, né tantomeno la Germania. Roma non rappresenta l’identità nazionale per il semplice fatto che l’Italia, a 153 anni dalla sua unità, non vive se stessa alla stregua di un Paese unito: concetto che negli ultimi vent’anni si è ulteriormente sbiadito, fra le urla padane e i rancori di certi pseudomeridionalisti.
Scena: Giorgio Napolitano e sua moglie Clio arrivano per assistere alla prima della Manon Lescaut diretta da Riccardo Muti, ma la porta del Teatro dell’Opera è sbarrata. Ci hanno appeso un cartello dove c’è scritto a penna: «Chiuso per sciopero. Il maestro Muti, direttore onorario a vita, è ripartito nel pomeriggio e non tornerà». Ieri sera a Roma poteva accadere questo, se il sindaco Ignazio Marino non avesse battuto i pugni sul tavolo minacciando addirittura la liquidazione dell’ente che negli ultimi tre anni ha perso 25,7 milioni. Un centinaio di dipendenti su 485, contrari alla legge sugli enti lirici che impone il pareggio dei bilanci, volevano far saltare lo spettacolo per protesta. Con seguito inevitabile di una raffica di incidenti diplomatici e figuracce planetarie.
Storia emblematica di una città con i nervi a fior di pelle, dove è netta la sensazione che la situazione stia sfuggendo al controllo. E non è certo per la perfidia degli ostruzionisti che hanno fatto saltare in Parlamento il decreto salva Roma.
Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci: Marino ha ereditato una situazione che definire complessa è un eufemismo. Come consente facilmente di appurare una navigazione nel sito ufficiale del Comune. Lì si trova, per dirne una, l’elenco degli avvocati alle dipendenze dell’amministrazione. Sono 23: ma la cosa sorprendente non è tanto il numero, quanto le retribuzioni. Si va da un minimo di 262.338 euro per Andrea Camarda o Umberto Garofoli a un massimo di 321.011 euro per Andrea Manganelli. Totale per i 23, sei milioni 648.552 euro nel 2012. Questo perché tutti loro, oltre allo stipendio, hanno diritto a intascare una congrua percentuale sugli onorari per le cause vinte. E il bonus, che in qualche caso sfiora i 200 mila euro, non è mai sotto 160 mila euro. Si dirà che succede anche altrove, per esempio all’Inps che ha un esercito di avvocati ben più numeroso: 335. Ma che i guadagni di un dirigente a tempo indeterminato (e non licenziabile) di un Comune possa oltrepassare il tetto (302 mila euro) imposto alle buste paga dei superburocrati statali fa un certo effetto.
L’attacco del sindaco Ignazio Marino a Matteo Renzi sul cosiddetto «decreto salva Roma» è apparso scomposto e maldestro. Ed ha causato la reazione irritata del presidente del Consiglio, che ha parlato di toni sbagliati e messo nel calendario del Consiglio dei ministri di oggi il provvedimento. L’episodio, tuttavia, è istruttivo. Lascia capire quali attese il comandamento della «velocità» renziana abbia suscitato; e dunque quale cortocircuito e quali impazienze, anche eccessive, può provocare. Marino, tra l’altro, è un «primo cittadino» come fino a pochi giorni fa era il premier. Ed ha fatto il tifo da subito per Renzi. Il suo scarto esagerato rischia di diventare così il primo campanello d’allarme per Palazzo Chigi, qualora alle grandi promesse non facesse seguire fatti concreti.
Il disappunto del capo del governo riflette il timore di rivelarsi il parafulmine dei ritardi e dell’impopolarità altrui; e di trasformarsi, proprio lui, in un possibile bersaglio del «partito dei sindaci». Per un Renzi tutto proiettato sulle elezioni europee e su un «cambio di passo», critiche del genere sono intoppi fastidiosi. Ieri la decisione della direzione del Pd di aderire al Partito socialista europeo ha mostrato un partito sostanzialmente compatto, e velato i problemi della maggioranza. Renzi giudica l’approdo nel Pse un «punto di partenza» non tanto per amore della socialdemocrazia. Vuole avere sponde più solide nel tentativo di accreditare a Bruxelles una politica che archivi l’«austerità» cara alla Germania, soprattutto: possibilmente senza incorrere in altre procedure di infrazione se l’Italia spende troppo.
Un braccio esce da una finestra del terzo piano del Parlamento, a metà mattina, e mostra l’arma automatica alla piazza piena di cosacchi: l’appoggia, agita il pugno. Fischi e applausi, sventolano i tricolori panslavi coi nastrini neroarancio della guerra al nazismo: «La Crimea è di Mosca!». Da un megafono, il capo della polizia chiede che cosa vogliano: «Non siamo autorizzati a negoziare o a fare richieste!…». A due giornalisti è consentito entrare: «Ma senza video! E solo se non parlano ucraino!». Guerra freddissima. Ucraina frozen. Le ombre russe sono spuntate alle cinque del mattino. Scivolate lungo i muri della via Karl Marx, dov’è la pizzeria Celentano. Hanno puntato le armi sui pochi poliziotti di turno e li hanno fatti scappare, veloci. Nel cortile, han messo faccia a terra gli squatter col colbacco che stavano preparando le barricate per la difesa del Parlamento autonomo di Crimea: «Non abbiate paura — hanno sussurrato in russo —, siamo dei vostri…». Poi han tirato giù le porte, si sono piazzati all’imbocco del corridoio grande della Rada. Coi mefisti, le tute dei corpi speciali russi, le granate stordenti. Staccando i telefoni, scollegando i pc, disattivando il sito web. «Questi non sono dilettanti», è ancora ammirato Daniv Bunzen, che s’è arreso subito: «All’inizio temevo fossero gli americani o i fascisti di Kiev. Invece sanno cosa fare.
La prima pagina di Repubblica: “Fmi: Italia sulla strada giusta”.
La Stampa: “Sindaci, prima spina per Renzi”.
In viaggio con i filorussi “La Crimea è terra nostra Quelli di Kiev? Fascisti”. Il reportage di Domenico Quirico:
Ieri è stato come se un scossa elettrica, di quelle che saldano i metalli, avesse attraversato i cuori. Un giorno convulso di brighe pericolose.
Morbida e doviziosa, agiata e pacata, è la terra di Crimea, ma dovunque l’attraversano brividi antichi, trasalimenti, memorie di travagliate esistenze, crucci e orrori. E i nodi irrisolti della rivoluzione di Maidan. Dovunque. I russi invocano la protezione di Putin contro «i terroristi» diventati padroni a Kiev, i nazionalisti ucraini minacciano di spedire a sud, a tutto vapore, «i treni dell’amicizia»: ma la parola ha un suono funesto, ricorda i convogli dei bolscevichi per cui l’amicizia era il pugno di ferro. Mosca fa sapere che i suoi jet pattugliano i confini, Kiev replica: i vostri carri stiano nelle caserme. E intanto allerta polizia e truppe speciali. I tatari attorno alle loro moschee spalleggiano gli ucraini in odio ai russi. Ma hanno i loro piani e vogliono, nel caos, rafforzarsi. Identità mai sopite, estremismi rinascenti, incendiari che aspettavano l’occasione. La verità è una cosa fragile. Se intonata in ogni angolo da mille gole di acciaio, immediatamente anche la verità più indiscutibile diventa bugia, violenza, pretesto per uccidere.
Il Fatto Quotidiano: “Renzi promette miliardi finti. Quelli veri li lascia all’estero”.
Leggi anche: Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano: “Sparlacchi”
Il Giornale: “Roma piange, Renzi paga”. La terza gamba e la patta chiusa. Editoriale di Alessandro Sallusti:
La scissione grillina prende corpo. Altri deputati e nuovi senatori lasciano il Movimento di quel matto di Beppe Grillo. Il quale, con rara coerenza, non molla e non fa una piega: pusillanimi, traditori e cannibali sono le parole più moderate con le quali il leader massimo bolla i fuoriusciti. Affari loro, ma non per tutti. Non pochi commentatori infatti già vedono nascere dal caos grillino – forse proprio per questo provocato e agevolato da manine misteriose – la terza gamba del governo Renzi. La prima sarebbe Alfano ( ordinaria amministrazione), la seconda Forza Italia (riforme). La terza avrebbe la forma di un nuovo gruppo con grillini transfughi, democratici scontenti (Civati e soci) e vendoliani. A occhio e croce questo gruppo, vista la composizione, potrebbe chiamarsi Nuovo partito comunista. E avrebbe la funzione – sostengono i soloni – di dare a Renzi un’alternativa, cioè un’arma per disinnescare il potere di Alfano sul governo e di Berlusconi sulle riforme. Sarà. A me questa ipotesi sembra la solita ricetta strampalata elaborata nelle stanze del palazzo senza alcun fondamento nella realtà. Oltre che un insulto all’intelligenza di Renzi. Mi chiedo che senso avrebbe per il premier imbarcare comunisti doc dopo tutto il casino che ha fatto dentro e fuori il suo partito per liberarsi di comunisti più o meno mascherati. Solo un deficiente- e Renzi non mi sembra tale- potrebbe vanificare il grande credito ottenuto in ampie fasce degli elettori mettendosi in mano a una pattuglia di estremisti traditori, perdenti e frustrati.
Più che un piano di Renzi, quello della terza gamba mi sembra una mossa della disperazione degli aspiranti terzogambisti e di quegli intellettuali di sinistra che non si danno pace per la svolta renziana. Ti prego Matteo- mi sembra di sentirli – stai con noi di sinistra, non fidarti del centrodestra, i voti te li diamo noi comunisti.