Scalfari, “Un Barbapapà spacciato per Padreterno”. Giampaolo Pansa su Libero

di Redazione Blitz
Pubblicato il 7 Aprile 2014 - 15:25 OLTRE 6 MESI FA
L'articolo di Pansa su Libero

L’articolo di Pansa su Libero

ROMA – Eugenio Scalfari ha compiuto 90 anni il 6 aprile 2014. Eugenio Scalfari è il più grande giornalista italiano e uno dei più grandi del mondo. Il giornale che ha fondato, Repubblica, continua ben oltre la fine della sua direzione, è il più letto d’Italia sia nella versione su carta sia in quella online, e resta profittevole nonostante la crisi. I grandi italiani, come Alfredo Frassati (Stampa)  e Luigi Albertini (Corriere della Sera) costruirono e innovarono su giornali esistenti; il Giornale, che Indro Montanelli fondò nello stesso periodo di Repubblica, non ha mai superato un terzo delle vendite di Repubblica e ha sempre quadrato i conti grazie alla generosità dei Boroli (De Agostini) e soprattutto di Berlusconi.

Scalfari ha festeggiato  suoi 90 anni con un editoriale molto critico contro Matteo Renzi e si è autocelebrato con un nuovo libro “Racconto autobiografico”, anche se il vero unico grande monumento alla grandezza di Scalfari è proprio repubblica, quasi “aere perennius” anche se ce la mettono tutta per corrodere il bronzo.
Scalfari è stato anche celebrato da un altro grande giornalista italiano, Giampaolo Pansa, per tanti anni a Repubblica e all’Espresso prima di passare al quotidiano Libero.
Giampaolo Pansa ha dedicato a Scalfari un lungo articolo, che potrebbe essere la gioia di uno psicanalista, ma che costituisce anche una interessante lettura per noi comuni mortali.
Giampaolo Pansa ricorda che il periodo passato tra Repubblica e Espresso è stato “l’epoca più felice” della sua vita professionale:

Ho vissuto e lavorato accanto a uno dei grandi giornalisti italiani. Ho scoperto i suoi difetti e riconosco ancora oggi le sue forti capacità. Compiere novant’anni e rimanere attivo, scrivere, ingaggiare polemiche, duellare con i nuovi potenti, non è affare di tutti. E benché le nostre strade siano ormai lontane, confesso che la figura di Eugenio da vecchio mi commuove, poiché contiene una parte di me stesso.

Parecchi mesi fa, mi è capitato di vederlo a Roma. Stavo avviandomi verso Montecitorio quando ho notato Eugenio diretto a casa. Mi è parso un patriarca, la figura snella e ben eretta, l’aria di chi è sicuro del proprio carisma. Camminava a passi lenti, impugnando un bastone prezioso più simile a uno scettro che a un sostegno. Ho notato la sua barba, candida e ben curata. In quel momento mi sono rammentato che a «Repubblica» lo chiamavamo Barbapapà, un soprannome dettato da molta ammirazione.

Senza Barbapapà, e senza Caracciolo scomparso nel dicembre 2008, «Repubblica» non sarebbe mai nata. E la politica italiana avrebbe avuto un corso diverso. Scalfari l’ha raccontata, giudicata e influenzata come nessun altro giornalista ha fatto dal 1976 a oggi. Per vent’anni da direttore e in seguito da editorialista, mentore, polemista.

Nel nostro mestiere, resistere all’avanzata del tempo conservando la capacità di parlare a un pubblico vasto di lettori, è una qualità che ben pochi possiedono. Ecco la dote numero uno di Eugenio: non rifugiarsi nella vita privata, ma rimanere in piedi di fronte ad amici e avversari, senza timore di nessuno. Scalfari ci è riuscito perché continua a essere un primo della classe con un’autostima enorme, convinto di avere sempre ragione, al punto di non sopportare chi si azzarda a mettere in dubbio la sua assoluta perspicacia. E quando commette un errore e sbaglia una previsione, come accade a chiunque, rimuove tutto senza spiegare nulla.

La stessa marmorea noncuranza mostra nel piegare i fatti, e la loro memoria, a vantaggio di se stesso. Sino al punto di alterare la verità. Gli capita di farlo spesso, confidando nell’ignoranza di chi lo ascolta quando lo vede in tivù o legge il suo vangelo domenicale su «Repubblica». Anche Scalfari si contraddice. Su questo versante, le testate che lo avversano si divertono a prenderlo in castagna. Ma lui considera la critiche un omaggio alla propria fama e ai suoi tanti successi.

Il primo è di aver creato dal nulla, con Caracciolo, un giornale leader come «Repubblica». E di essere riuscito a farlo diventare la potenza di oggi. Un’impresa titanica, mai accaduta nell’Italia dal 1945 in poi. Scalfari poi voleva un quotidiano di sinistra ed è riuscito a costruirlo e ad affermarlo, distruggendo i fogli compagni di strada dei comunisti.

Barbapapà voleva un giornale ibrido. Per metà aristocratico e per metà popolare, in grado di ospitare firme diverse e spesso in contrasto tra loro. Scalfari ci è riuscito mettendo in pratica la teoria del libertino, capace di contraddirsi, di mutare opinione. Quel prodigio oggi è finito, annientato dalla filosofia del giornale caserma che pervade la «Repubblica» di questi ultimi anni. Una fortezza inchiodata a un pensiero unico. Dove non vengono ammessi dubbi, dissensi, deviazioni. Ecco un errore autoritario al quale Scalfari non si è opposto, anzi ha contribuito a provocare. In base al principio che le grandi testate sono tali proprio perché parteggiano per una causa politica.

La domanda è se nella temperie attuale, quando nessuno è più certo di nulla, un giornale-caserma sia utile ai lettori che lo acquistano. Se osserviamo la crisi profonda che investe anche «Repubblica», la risposta è no. Ma questo è un problema del direttore di oggi e dell’editore. Non di Scalfari.
Barbapapà non si pone questo interrogativo. E non si macera nell’incertezza se deve spiegare chi siano i lettori di «Repubblica». Per lui sono una comunità di militanti, cresciuta lottando contro i nemici che, via via, Scalfari indicava: per primo Bettino Craxi e infine Silvio Berlusconi. Nel giugno 2012, alla richiesta di definire le diverse generazioni dei suoi tifosi, ha offerto una risposta secca: «Sono la sinistra italiana di oggi».