Vittorio Zucconi si dimette da tifoso del Milan. Colpa di “Barbie” Berlusconi

di Redazione Blitz
Pubblicato il 13 Dicembre 2013 - 19:14 OLTRE 6 MESI FA

 

Vittorio Zucconi si dimette da tifoso del Milan. Colpa di "Barbie" Berlusconi

Vittorio Zucconi si dimette da tifoso del Milan. Colpa di “Barbie” Berlusconi (foto LaPresse)

ROMA – Vittorio Zucconi si dimette da tifoso del Milan per colpa di “Barbie” Berlusconi. Lo fa con un lungo articolo pubblicato sul Venerdì di Repubblica in cui ricorda i suoi 60 anni da tifoso: dal Milan di Gre-No-Li al pantano della B. E poi l’epopea Berlusconi-Galliani. Ora, però, l’avvento di Barbara è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Scrive Zucconi:

Disperso nelle brume milanesi, a rimorchio di un amico di famiglia che mi trascinava verso un luogo dedicato chissà perché al primo vescovo di Pavia, San Siro, il mio calvario glorioso e doloroso di tifoso milanista cominciò negli anni 50. Sarebbe finito solo sessant’anni dopo, in queste ore di liberatoria ridicolaggine, in una grottesca pochade di ereditiere ambiziose, servi padroni, segreti ricatti, gente che sa troppo o troppo poco, calciatori di seconda mano comperati ai mercatini di Porta Cicca e un malcapitato allenatore con l’improbabile nome di Allegri.

In sei decenni di fede milanista credevo di averle viste tutte, ma proprio tutte. Dal primo pomeriggio nebbioso di un Milan Atalanta 1950 con il trio Gre-No-Li a mala pena intravisto dal parterre fra le gambe degli adulti nel tempio di San Siro ancora con un solo anello, alla calata della Barbie Berlusconiana e della nuova corte sul «club più titolato d’Italia».

La «fede rossonera» come tutte le fedi aveva ripagato e martirizzato il bambino solitario che ero stato, immigrato dal profondo sud della Valle Padana Modena alla gelida Milano del Dopoguerra.

Per il Milan ho rischiato di morire, imbottendomi di pastiglie rubate alla mamma per nasconderle un febbrone equino che mi avrebbe impedito sicuramente di assistere a un derby con l’odiosa Inter. L’automedicazione incosciente mi precipitò in uno shock anafilattico dal quale il medico accorso a casa mi strappò, disse lui, «per un pelo». Per il Milan, Marco (Mignani, il grande pubblicitario che inventò, senza immaginare le conseguenze, lo slogan della «Milano da Bere»), Antonio e io entravamo nell’anello superiore dei popolari dopo le nevicate cinque ore prima dell’inizio, per scavarci, come partorienti Eskimo, una conca nella neve.

Doveva essere esattamente sulla linea di metà campo, nella quale depositare il sedere per un gelido bagnomaria. Per ascoltare Tutto il Calcio nei primi anni 70 dal Belgio, già adulto e corrispondente estero per autorevoli quotidiani, lasciavo la giovane moglie e l’infanta neonata, per vagare tra le colline attorno a Bruxelles e cercarne una dalla quale, fra scrosci, pernacchie, fruscii, si materializzasse nell’autoradio la voce di Sandro «Catarroarmato» Ciotti da Milano per annunciare che il Milan era finalmente passato in vantaggio.

Credevo di averle viste tutte, dalla A alla B, il tragico alfabeto che soltanto la detestabile Inter non ha mai dovuto compitare. Felicino Riva e Giussy Farina, antesignani di presidenti bucanieri. L’ascesa e il tramonto di Gianni Rivera, l’abatino, il «grande mezzo giocatore», come scriveva l’allora odioso per me e grande Gioann Brera che osava criticarlo, anche definito come «quello che ha sempre il culo per terra» da mia madre, che aveva anticipato, pur non sapendo nulla di football, la fine del calcio tecnico e l’avvento del calcio muscolare e violento.

Ero allo stadio, finalmente nei «distinti» senza il sedere nella neve, per le imprese dello «Sciagurato Egidio», il centravanti Calloni che aveva un talento prodigioso per sbagliare gol sicuri, e per il suo successore, l’inglese Blisset, acquistato direttamente da Elton John che ne possedeva il cartellino. L’inetto Blisset, che, dopo una raffica di gol sbagliati, si meritò l’etichetta indelebile, e molto politicamente scorretta, urlata da un tifoso esasperato: «L’è un Calloni nègher».

Di Berlusconi Silvio, costruttore edile e gran venditore di appartamenti sulla carta nella Milano del cemento a gogò «immerso nel verde a dieci minuti dal centro», non mi fidavo. Lo avevo conosciuto da vicinissimo, quando allenavo le prime squadrette allievi che lui, prima per i gesuiti del Circolo Torrescalla e poi con il proprio marchio Edilnord sponsorizzava.

Tra lui, il boss, e me, il patetico «mister»‚ per i trovatelli raccattati con gli annunci sulla Gazzetta della Sport e arrivati sui campi a piedi pagandosi il biglietto del tram, c’era un fondamentale abisso ideologico. Io catenacciaro alla Rocco, sostenitore dello schieramento 1-8-1, un libero, otto difensori e l’unico bravo davanti a pedalare con la lingua fino ai parastinchi sulle palle lunghe. Silvio megalomane, sognatore di calcio spettacolo e di goleade: a dispetto della commovente broccaggine dei nostri allievi e del loro «mister», lui voleva il bel gioco.

Ma poiché non si litiga col successo, anche al tifoso ormai scettico e diffidente fu impossibile resistere alla seduzione del Rinascimento milanista, condotto a colpi di miliardi che improvvisamente si riversarsono sulla squadra assetata dopo i decenni della siccità.
Finiti gli anni eroici nei quali uno dei predecessori di Galliani, Gipo Viani, concedeva inganni generosi al centravanti Ferrario, detto Ciapìna, con il vizio del poker.

Gli riprendeva al tavolo da gioco quello che gli aveva dato al tavolo delle trattative. O venivano assoldati rottami dal passato glorioso pagati a cottimo, se fai gol incassi, sennò, ciccia. Sempre attentissimo alle mode del momento, e con il portafoglio a fisarmonica gonfiato dai miliardi, il Milan del «Presidentissimo» e del suo fedele servo Lothar, cioè Galliani, quello calvo che stava al fianco di Mandrake, strappato al mondo delle antenne tv, fece incetta di olandesi, per onorare il culto allora vigente del «calcio totale all’olandese», e li affidò a un genio fanatico del «calzio», il romagnolo Arrigo Sacchi, il quale vinse tutto. Ancora oggi incazzandosi quando si sente dire che vinse facile, dimenticando che accanto a Gullit, al divino Van Basten, e Rijkaard, il suo Milan contava alcune sostanziose schiappe ben schierate e motivate da lui.

Una vocina dentro, forse quella del bambino trascinato nella San Siro preistorica, insinuava che ci fosse qualche cosa di sgradevole e di oscuro, in quella proprietà, qualche odore non proprio limpidissimo di soldi e di operazioni fatte dal padrone e dal suo Lothar per allargare l’impero televisivo fino al Regno dello Due Sicilie a colpi di antenne, stallieri e ripetitori, ma, come già sapeva Virgilio, tifus omnia vincit, il tifo, come l’amore, vince su tutto.

La vocina divenne un grido quando l’eterna finzione dello «sport separato dalla politica» una bufala che neppure l’Italia fascista sarebbe riuscita a smentire pur vantando le vittorie di Pozzo come tributi al Duce crollò con la discesa nel campo delle elezioni. Mi illusi, in quel 1994, di poter restare un tifoso «diversamente milanista», di poter accettare di vivere con il disturbo bipolare di godere per le vittorie del Milan come per le sue sconfitte, dedicandole a Silvio.

Avrei dovuto sapere che colui che aveva osato trascinare Maldini e Baresi, totem di noi tifosi, nel garbage, nella spazzatura elettorale della Storia Italiana, avrebbe fatto esplodere la contraddizione.

Ora che la contraddizione è esplosa, saltata per la mancanza di quel meraviglioso surrogato dell’onestà e della competenza che sono i soldi, resta al bambino di San Siro soltanto un filo per tenerlo legato a quelle strisce verticali rosse e nere. È il filo sottilissimo ma tenace del Dna, dell’eredità genetica, impossibile da tradire. Non quella dei miei genitori o nonni, che del calcio altamente s’impippavano fino al disgusto che mio padre esibiva quando al mattino esploravo in ansia i campi ancora incolti davanti alla finestra della nostra casa di piazza Firenze a Milano, cercando di capire se la nebbia avrebbe reso inutile il viaggio verso lo stadio.

Negli spasmi agonici di una dinastia ormai al tramonto in tutte le sue manifestazioni, che soltanto un illuso può sperare o temere si tramandi di padre in figlia, quando anche l’eredità sarà consumata, mi restano un figlio milanista e, peggio, un nipotino di nove anni milanista al punto di avere scelto proprio i colori rossoneri per l’uniforme della squadretta nella quale gioca.

In Maryland, Usa, non a Casalpusterlengo. Come posso spiegare a figli e nipoti che il patriarca della famiglia si è ormai disamorato di questa pochade milanista? E che il reality show del fedele Lothar prima offeso e poi recuperato sotto la minaccia di una causa dove troppe verità sarebbero emerse, della frizzante Salomè bionda che chiedeva a Erode la testa del suo Galliani Battista su un vassoio (d’argento), dei «reduci d’Algeria» come Maldini, Albertini e Seedorf, che si vorrebbero riesumare per ridare credibilità alla bandiera, non merita più passione, né tanto meno «fede»?

Dovrò continuare a fingere di essere milanista, per loro, in attesa che qualche danaroso sceicco, qualche gasista siberiano, qualche trafficante messicano raccolga i pezzi dell’impero crollato e comperi l’Associazione Calcio Milan a prezzi di fine stagione. Barbie Berlusconi è la bambina viziata, con troppi bambolotti e troppo tempo libero.

Galliani Lothar è ormai merce avariata, un dentifricio uscito dal tubetto che nessuno potrà rimettere dentro. Il Mister, con il quale solidarizzo avendo conosciuto da vicino la invadenza del padrone (ma non i suoi milioni, ahimè) è fresco come il giornale di ieri.
E quando il nuovo signore entrerà in tribuna a San Siro, potrà sempre chiedere, come Tohir all’Inter con Ventola, di riprendere Calloni. Bei tempi.