Quando ne fu annunciato il completamento, dieci anni fa, sembrava che il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Sembrava di aver trovato la leggendaria panacea, la medicina universale e onnipotente che bandisce dalla terra le malattie. Il Progetto Genoma Umano (in inglese HGP, Human Genome Project) era cominciato nel 1989, con l’obbiettivo di identificare e mappare i tre miliardi di unità chimiche che compongono il patrimonio genetico dell’essere umano. Da questo primo risultato, sarebbe dovuta discendere una conseguenza ben più importante. Una volta individuati i geni, si sarebbero trovate le radici genetiche delle principali malattie e si sarebbe potuto intervenire sviluppando trattamenti adeguati e particolareggiati. Quando il progetto, dopo dieci anni il suo lancio, prese fine, fu l’allora presidente Bill Clinton ad annunciare quella che veniva considerata una svolta storica nella storia della medicina, se non dell’uomo. Oggi, undici anni, dopo il trionfale annuncio, quelle enormi aspettative restano ancora in gran parte disattese e la medicina, e i malati, non hanno ancora visto quei benefici attesi.
Come ha affermato un eminente scienziato americano, il Genoma Umano è scienza, non ancora medicina. E, difatti, sono state molte, e a volte sorprendenti, le scoperte rese possibili dal progetto. Tuttavia, l’obiettivo principale– scovare le cause profonde di malattie come il cancro e l’Alzheimer, e in seguito produrre trattamenti efficaci – non è stato raggiunto. Dopo dieci anni di speranze nell’applicabilità della mappatura del genoma umano alla ricerca medica, i genetisti di tutto il mondo sono ritornati all’antico e collaudato sistema della storia medica famigliare.
Qualcuno sostiene che alla radice dell’insuccesso sta il metodo che fu allora applicato alla ricerca. All’epoca, essendo troppo oneroso mappare l’intero genoma dei pazienti, l’Istituto Nazionale Sanitario americano escogitò quella che sembrava un’intelligente scorciatoia: guardare solo i siti del genoma dove le varianti del DNA sono numerose. Questo metodo derivava dalla teoria che se le principali patologie sono comuni anche le varianti genetiche che le causano devono esserlo. Oggi questo assunto non potrebbe essere più riproposto. Un progetto di catalogazione delle varianti genetiche umane lanciato nel 2002, il cosiddetto HapMap, ha mostrato che le varianti comuni possono spiegare solo una piccola frazione dei rischi patologici. Ogni morbo è più probabilmente legato alla combinazione di un numero elevato di varianti rare – troppo rare perfino per essere state catalogate. Inoltre, si è visto che i siti più legati allo sviluppo delle malattie non risiedono nei geni, bensì in quelle strisce di DNA che stimolano le cellule a produrre proteine, e che non hanno una funzione biologica conosciuta.
Se il Genoma Umano ha fatto poco, per ora, per la medicina, il quadro per la scienza è risultato nettamente cambiato. Sono state molte le scoperte e le sorprese . Si è scoperto, ad esempio, che il numero di geni umani è sorprendentemente piccolo in paragone a quello degli animali inferiori. Solo un esiguo numero di geni, infatti, separa quantitativamente l’uomo dalla comune mosca delle frutta. Questa strana rivelazione ha portato a rivalutare il sistema genetico umano e ad attribuirgli una complessità maggiore di quanto si pensava fino a poco fa. Si è compreso che il patrimonio genetico umano è regolato essenzialmente non solo dal numero dei geni, ma anche dai complicati processi di interazione tra DNA e RNA.
La ricerca sul genoma va avanti. Mano a mano che un numero sempre più grandi di genomi saranno codificati, la speranza di trovare nella sequenza dei geni una soluzione per le malattie che affliggono l’uomo si farà più concreta. Per ora, non si può essere né ottimisti, né pessimisti. L’unico approccio valido è quella dell’empirico. Non sappiamo, attendiamo.