Sindrome da fatica cronica. Ricerca inglese svela: “Il riposo non è di aiuto”

di Veronica Nicosia
Pubblicato il 22 Febbraio 2011 - 08:35| Aggiornato il 1 Agosto 2011 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Stanchezza, dolori muscolari diffusi, insonnia, disturbi della memoria sono solo alcuni dei sintomi della sindrome da affaticamento cronico, che affligge il 2 per cento della popolazione mondiale, le cui cause rimangono tutt’oggi sconosciute, anche se alcuni medici ritengono che sia dovuta ad infezioni virali non curate.

Ignote le cause, impossibile definire una cura efficace: la strategia adattativa, che prevede che il malato si abitui gradualmente alla sintomatologia, non ha dato gli effetti sperati, lasciando i pazienti in un limbo da cui è difficile uscire.

Un nuovo approccio è però oggetto di studio di alcuni ricercatori inglesi, che hanno pubblicato sulla rivista medica Lancet i risulta osservati: mentre l’adattamento e le cure mediche non danno sollievo al paziente, sembra che un’attività fisica moderata ed un cambio dei comportamenti riesca ad alleviare i sintomi del disagio, e alcuna e volte ad invertire le condizioni critiche.

Hans Knoop, psicologo clinico del Centro per la fatica cronica di Nijmegen, in Olanda, e co-autore della ricerca con il Consiglio di Ricerca Medica della Gran Bretagna, ha dichiarato: “Spero che molte persone si convinceranno che sia possibile curare la sindrome da affaticamento cronico e che non è necessario che le persone ne soffrano per sempre”.

Procedendo per tentativi i ricercatori inglesi hanno osservato le reazioni di oltre 600 pazienti, che divisi in 4 gruppi sono stati sottoposti a diverse tipologie di trattamento: terapie cognitivo-comportamentali di carattere psicologico per superare le paure legate all’attività, esercizio fisico per aumentare l’energia e adattamento graduale e cure mediche, per attenuare l’insonnia o il dolore.

Monitorati per circa un anno solo il 60 per cento dei soggetti ha mostrato dei miglioramenti della propria condizione, ed ha evidenziato come la terapia comportamentale e l’esercizio fisico abbiano aiutato agendo sulla convinzione dei pazienti di poter migliorare, anche se molti abbiano dichiarato un peggioramento, sebbene il trattamento fosse sicuro.

Peter White, professore di psicologia medica dell’università Queen Mary di Londra e coordinatore della ricerca ha osservato che “sebbene le terapie impiegate fossero le migliori a loro disposizione, 4 pazienti su 10 non hanno mostrato miglioramenti. – ed ha aggiunto – Questa è una condizione veramente invalidante, ed è necessario fare di più per capire come sia possibile migliorare le terapie attuali”.

In una società dove al singolo individuo viene richiesto il massimo per essere produttivo, soffrire di questa invalidante patologia costituisce un serio problema, che mina costantemente la qualità della vita, vita che oggi sempre più sembra richiedere all’uomo un atteggiamento quasi stoico nella sopportazione di frenetiche e stressanti routine nella ‘giungla’ della città.