Neuroscienza. “Macchina dei ricordi” fa condannare molestatore a Cremona

Pubblicato il 24 Febbraio 2012 - 11:09 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Come nelle fiction più sofisticate, tipo The Mentalist, o Lie to me, avanguardistiche tecniche di neuroscienza entrano nei tribunali italiani e smascherano il colpevole. O meglio, una vera e propria macchina della memoria, concorre ad accertare se, come è successo a Cremona, i ricordi della vittima di un reato siano autentici. Il presunto autore di molestie sessuali, un commercialista, è stato ritenuto colpevole e condannato a un anno grazie anche alla perizia sui ricordi della segretaria che aveva denunciato le molestie. La macchina messa a punto da un professore ordinario di Neuropsicologia di Padova è stata utilizzata in tribunale e considerata attendibile. Tecniche simili erano state già messe a disposizione dei periti ma solo per fornire un quadro più esauriente  del profilo psicologico di un imputato, per stabilire eventuali attenuanti.

Mai erano state usate per condannare o assolvere. Lo Iat, “Implicit association test” non va confuso con la macchina della verità. Funziona così: al soggetto esaminato vengono applicati dei sensori in testa collegati con un computer che restituisce l’immagine diagnostica da risonanza magnetica del cervello. L’esaminato deve classificare una serie di frasi nelle categorie “vero” o “falso”. Analizzando le risposte, il ricordo “vero”  avrebbe tempi di reazione più rapidi. Questo perché un ricordo  “falso” presuppone un conflitto cognitivo che dilata impercettibilmente i tempi di reazione, tempi che non sfuggono al test.

Il ricordo vero corrisponde al ricordo “naturale” o “compatibile”. Quanto è affidabile questa macchina? Sul quesito si sono scontrate accusa e difesa, ma in generale è un tema affascinante in sé. Da un punto di vista scientifico il test è attendibile al 92%. Tuttavia questa percentuale di successo sarebbe stata accreditata prevalentemente sulla base degli articoli dello stesso inventore della macchina, il professor Sartori. Da un punto di vista giuridico, nel caso concreto, il giudice ha ritenuto valido il test ai fini della condanna, perché l’ha considerato un contributo di attendibilità alle dichiarazioni ripetutamente  espresse dalla vittima.

Il giudice ha inoltre scritto nelle motivazioni che “falsificabilità della teoria in senso popperiano e quindi resistenza del metodo a tentativi di smentita, controllo dei lavori pubblicati da parte di revisori qualificati (peer review) accettabilità dei limiti e accoglimento da parte della comunità scientifica” rendono il test veritiero. Insomma vale come conferma di “prove narrative” già raccolte. Comunque il contributo della neuroscienza per l’accertamento dei reati si sta facendo sempre più strada.

Negli Stati Uniti è stato messo a punto un software che capisce se stai mentendo dal tono della voce. Un altro software guida la macchina che da minimi movimenti facciali deduce la menzogna. Il progresso delle tecniche associato alla criminologia, comunque,  se da un lato meraviglia per l’arditezza delle conquiste scientifiche ottenute non sposta di molto il dibattito che da quando è stata inventata la macchina della verità divide i fautori dagli scettici. Il problema resta sempre l’attendibilità che è raggiungibile per via statistica. Il 92% vantato dal test del professor Sartori non va oltre ogni ragionevole dubbio. La mente vive anche di suggestioni che ognuno può considerare verità. Considerarlo, come ha fatto il giudice Salvini a Cremona, uno “strumento neutro”, significa circoscriverne l’importanza: è stato usato solo come corroborante. Un aiutino che al molestatore è costato un anno di prigione.