Morto Lenzi. Antonio Del Giudice: “Ho perso un padre”

Pubblicato il 15 Gennaio 2011 - 19:54| Aggiornato il 2 Febbraio 2011 OLTRE 6 MESI FA

Quando, alla fine del 1979, arrivai da Bari a “Paese Sera”, Mario Lenzi era già andato a lavorare con Caracciolo. Ma nel giornale di via Due Macelli, allora diretto da Anjello Coppola, non si parlava che di lui. Mario Lenzi era più venerato del grande Arrigo Benedetti, più rispettato del leggendario Amerigo Terenzi. Io ascoltavo i racconti e la leggenda, provavo tanta invidia per chi come Sergio Baraldi, più ragazzo di me, lo aveva conosciuto a “L’Ora” di Palermo.

Nuovo dell’ambiente e timido ragazzo di provincia, raccoglievo con voracità i racconti di Ugo Ugolini o di Stefano Petrovich, con la speranza e la certezza che un uomo così avrei dovuto conoscerlo, prima o poi. Che non avrei potuto fare il giornalista senza un maestro così. Ma la mia esperienza a “Paese Sera” non durò a lungo. Dopo un solo anno mi chiamò a “Repubblica” Eugenio Scalfari. Mi dispiaceva lasciare quel giornale, “comunista” ma non troppo. La voce di Scalfari al telefono era stata un’emozione troppo invitante. In fondo, mi dicevo, anche Lenzi è andato a lavorare col Gruppo Caracciolo.

Che volevo di più dalla vita? In piazza Indipendenza, trovai un altro esercito di “lenziani”, da Franco Magagnini, a Bevilacqua, Forattini, Dell’Arti, Giorgio Signorini. Il mito era vivo anche nel villaggio di Scalfari, e per me fu quasi una consolazione. Il mio ideale “inseguimento” continuava. Perché tutti avevano conosciuto Lenzi e io no? Ma la vita è strana. A “Repubblica”, fra Roma e Milano, rimasi quasi dieci anni, fino all’inizio del 1989. E in quegli anni, per la prima volta, incontrai Lenzi durante un’occasione pubblica della Federzione Editori, insieme con il mio direttore Scalfari.

Com’era Mario? Aveva una sessantina d’anni, pelle chiarissima, occhi di un azzurro profondo, scostante e simpatico assieme, severo e ironico. Poche parole. Io lo guardavo con stupore, finalmente lo avevo conosciuto. Il Maestro di “Paese sera”, de “L’Ora” di Palermo, dei quotidiani locali di Caracciolo. All’inizio del 1989 Tito Cortese, chiamato da Walter Veltroni, a “rifondare” il giornale palermitano, l’Ora, ormai con un piede nella fossa, mi volle come vice-direttore.

Lasciare “Repubblica” in pieno sviluppo per andare in una “baracca sfasciata”, come mi disse Giorgio Bocca, era una follia: ma, come Bocca aggiunse, una bella follia. E follia fu, nel senso più drammatico della parola. “L’Ora” non aveva più un editore degno di questo nome; Tito Cortese era stato un efficace corrispondente tv da Bonn, ma non sapeva dove stava di casa la carta; io col mi caratterino mi misi subito nei guai, attirandomi le simpatie dei “lenziani”, che c’erano anche a “L’Ora”, ed entrando in rotta di collisione con direttore, con l’editore in posizione ambigua.