Morto Mario Lenzi. Fece rinascere giornali e crescere il Gruppo Espresso

Pubblicato il 15 Gennaio 2011 - 17:50 OLTRE 6 MESI FA

Mario Lenzi

Mario Lenzi, uno dei grandi del giornalismo e dell’editoria italiani della seconda metà del novecento, è morto nella casa di Cortona, in Toscana, dove si era ritirato. Avrebbe compiuto 84 anni a marzo 2011.

Lenzi è stato uno dei protagonisti del passaggio dell’ Espresso da casa editrice di un settimanale a gruppo multimediale, trasformando giornali locali nella voragine del fallimento e dell’occupazione, come il Tirreno di Livorno, in quotidiani diffusi e profittevoli.

Più e meglio di tutti Lenzi ha testimoniato quanto fosse giusta la convinzione Carlo Caracciolo che giornali locali potessero vivere e vivere bene. Questa fede accomunava Lenzi non solo a Caracciolo, ma anche a due altri personaggi importanti quanto ormai dimenticati nella storia dell’editoria italiana, Gianfranco Alessandrini, amministratore delegato dell’Espresso fino alla vendita alla Mondadori nel 1989, e Amedeo Massari, che fu anche la spalla gestionale di Eugenio Scalfari nella fondazione di Repubblica e poi l’amministratore del Giornale di Berlusconi.

Mario Lenzi era nato nel 1927 a Livorno e fu subito comunista e partigiano. Raccontava, con l’aria di volerle ridimensionare, la storia di quando a soli 17 anni catturò un sottomarino tedesco e altre imprese da partigiano. Si vantava di non essere stato battezzato e di essere ateo, ma è stato una delle persone più mosse da senso di giustizia e di carità che io abbia conosciuto, a dimostrare che non basta e non serve un battesimo a fare un buon cristiano. Era anche attratto dai sacri testi, da lui imparai che nella cruna dell’ago del Vangelo non deve passare un cammello ma una fune e che si è trattato di un millenario errore di traduzione. Trasmise questa passione alla amatissima figlia Caterina, linguista e traduttrice.

Umile nei comportamenti, riservato oltre ogni pudore, geniale nelle sue intuizioni, a 33 anni era diventato vice direttore di Paese Sera, il grande quotidiano “laico” del Pci per Roma, poi era passato a dirigere l’Ora di Palermo. Fu lì che Caracciolo lo scovò, alla fine degli anni ’70, quando rilevò dal fallimento il quotidiano Il Telegrafo, che era stato il giornale dei Ciano prima di passare a Attilio Monti e poi scivolare nel disastro.

Erano anni difficili per i giornali. L’eredità del fascismo si faceva sentire attraverso leggi come quella sul lavoro domenicale i relativi costi e sugli orari settimanali, che nei giornali sono stati di 36 ore per tutti, giornalisti, tipografi, impiegati dai tempi del duce (che era giornalista e aveva un occhio tenero per la categoria e un occhio acuto per gestire il consenso, vantaggi economici e bavaglio con l’Albo, padre dell’Ordine).

Gli anni del boom avevano generato un rivendicazionismo sindacale feroce, acuito dalla lotta politica fra le tre sigle dominanti, Cgil, Cisl e Uil, che si rincorrevano nel controllo delle anime operaie del settore, perché potere gestire la potenziale conflittualità di una tipografia era anche quello uno strumento di lotta politica. E così i costi avevano spinto i giornali nel baratro e il Telegrafo c’era sprofondato, anche perché Monti pensava che per controllare il mercato toscano bastasse la sola Nazione di Firenze, da lui pure posseduta.