Milano, la casa famiglia per sieropositivi ha 20 anni

Pubblicato il 8 Giugno 2011 - 08:01 OLTRE 6 MESI FA

MILANO – Pensiamo agli anni Novanta, quando il boom dell’Aids spaventava intere generazioni e la paura del contagio alimentava terribili leggende metropolitane su come si trasmetteva il virus dell’Hiv. Pensiamo a quel periodo, ad una malattia che veniva usata per intimorire i bambini o gli adolescenti, ma anche ad un nome che rappresentava lo spettro della morte in sole quattro lettere.

Nacque proprio in quel periodo in Italia, a Milano per la precisione, la prima casa famiglia in grado di accogliere piccoli nuclei familiari, mamma e bambino per lo più, che avevano contratto il virus, una realtà gestita dall’associazione Arché, creata da padre Giuseppe Bettoni e operante oggi in quattro città italiane.

«Quest’anno festeggiamo il ventesimo compleanno», spiega con orgoglio Aldo Velardi, segretario generale di Arché, «noi siamo nati nel 1991, quando c’era una vera e propria emergenza pediatrica di bambini venuti al mondo sieropositivi, soprattutto da genitori tossicodipendenti».

Le porte dell’attuale sede sono state aperte ufficialmente nel 1997, per una casa accoglienza in grado di assistere contemporaneamente fino a 10 bambini e 7 mamme. Una struttura creata per rispondere ad un’esigenza sociale, e che da allora ha accolto nelle sue mura centinaia di donne con seri problemi, insieme ai loro piccoli, riportandoli in qualche modo alla vita.

Il volto di questo centro e della stessa Arché è molto diverso dall’originario: oggi la maggior parte delle ospiti, un tempo quasi esclusivamente sieropositive, anche per la diminuzione di casi di contagio madre/figlio, proviene per la maggior parte da situazioni di disagio sociale, psichico, economico o di vita, mentre l’associazione si muove su diverse direttive, dalla prevenzione nelle scuole medie con incontri mirati al supporto in casa alle famiglie in difficoltà.

Il funzionamento però è sempre lo stesso: «Per i nostri 14 ospiti (7 adulti e 7 bambini) abbiamo sei educatori, una cuoca e alcuni volontari che ci aiutano, anche se in misura inferiore rispetto ad altri settori sempre dell’associazione perché per la casa accoglienza ci vuole una qualificazione ben precisa», sottolinea Velardi, «qui vengono inviate le mamme con i loro piccoli direttamente dai comuni di provenienza, non solo della zona ma anche in giro per l’Italia. Fin dal loro arrivo si fa un piano di recupero, per capire quali sono le criticità e le aree di intervento primarie, e poi si prosegue passo passo verso la meta».

La ricerca del lavoro, il recupero del ruolo di madre, il saper tenere una casa o l’accettazione di una gravidanza: tutte cose che sembrano banali, ma che per queste donne sono un traguardo da raggiungere, frutto di un lavoro e di un apprendimento costante insieme agli educatori, per un reinserimento nella vita di tutti i giorni graduale ma efficace. Ogni nucleo ha la sua stanza, ma ci sono parecchi gli spazi comuni in cui le donne possono socializzare, comunicare, stare insieme.

«D’estate poi andiamo in vacanza, principalmente in montagna, mentre durante l’anno quando le mamme lavorano, i piccoli se non vanno a scuola rimangono qui da noi, tenuti sotto controllo dal nostro staff». Insomma, come una famiglia, anzi una casa famiglia.