Convivenza tra religioni: “Allah” ovvero il peso delle parole

Pubblicato il 13 Gennaio 2010 - 15:27 OLTRE 6 MESI FA

Le parole possono ferire più delle pietre. Si osservi cosa succede in Malesia dove i cristiani sono perseguitati dalla maggioranza musulmana perché nel credo dicono Allah, una parola entrata da secoli nella loro liturgia. La stessa che i loro fratelli in Abramo (i musulmani) usano, e di cui vogliono, almeno nell’isola, avere il monopolio.

Dietro le parole si nascondono, lontane, le cose: oggetti del desiderio o simboli del potere. Ma spesso, semplicemente, le parole sono strumenti che servono ad accendere i conflitti, a buttare olio sul fuoco. La storia ne è piena di esempi. Nonostante i visionario del materialismo o del finalismo religioso, la storia è a volte semplicemente fatta di una parola sbagliata.

Come il dispaccio ingiurioso che Bismarck fece in modo di far arrivare a Napoleone III; l’imperatore dei francesi si arrabbiò, scatenò una guerra, perse il trono. «Il mio regno per un telegramma». Una storia atroce più volte sentita racconta che durante la guerra in Libano i soldati dei diversi check-point prima di far passare i civili chiedessero di articolare «banadura», pomodoro in arabo. A seconda della pronuncia sapevano subito se questi erano palestinesi, drusi o cristiani. E potevano regolarsi di conseguenza, sparando e uccidendo, o dando il lascia-passare.

La parola Allah è in fondo una bella parola. Chi è stato in Medio Oriente sa quanto, dietro le due sillabe, si nasconda un universo, mentale e quotidiano, che non è fatto di religione, minareti, letture del Corano. Allah è soprattutto linguaggio, parola nel senso primo del termine, sproloquio a volte. Chi è stato in Medio Oriente sa quanto tutto ruoti intorno ad Allah, dagli appuntamenti fino alla conoscenza, dai ringraziamenti fino agli auguri: «Ci vediamo dopo» «In scia Allah (se vuole Dio)» «Chi ha fatto questo?» «Allah ahlam (Solo Dio lo sa)» e di esempi ve ne sono a profusione.

Il Medio Oriente non è mai sembrato un modello di tolleranza. Per dimostrarlo bastano le molteplici frizioni etniche che si sono ripetute nell’arco del tempo e che continuano ancora oggi in certi paesi (gli ultimi a farne tragicamente le spese sono i Copti in Egitto e i cristiani iracheni). Eppure in questa fetta di mondo, dove per secoli grandi religioni monoteiste hanno pacificamente convissuto (mentre nell’Europa moderna del Rinascimento nascevano l’Inquisizione, la caccia alle streghe e le guerre di religione) la parola «Allah» è sempre stata un punto di convergenza. Chi è mai entrato in una chiesa cristiana di Damasco o di Beirut non può fare a meno di intenderla, accanto all’altra, questa cara solo ai cristiani, «Abb», padre.

Lo straniero, di qualunque razza e religione, che arriva a Damasco o ad Amman e che ripete con zelante ingenuità ad ogni momento «in sciah Allah» fa immediatamente parte di un mondo linguistico e mentale che forse in origine era islamico, ma che in questi luoghi, oggi, e speriamo per molto tempo, è ancora universale.