ROMA – Angry Birds no, Google Maps sì, Facebook no, Twitter sì, Google plus no, Skype sì, Dropbox no, Pandora no, Netflix no: è la lista dei programmi, delle applicazioni e dei social network consentiti o non consentiti al lavoro. Un elenco messo insieme da Fiberlink, una società americana che ha coinvolto 4.500 aziende in tutto il mondo, facendo la media fra ciò che veniva più vietato e ciò che veniva consentito o addirittura incoraggiato.
Ormai molte aziende hanno adottato reti Wi-fi che impediscono l’accesso ai programmi o ai siti “vietati” o installano sui computer (o tablet, o smartphone) dei propri dipendenti software che non fanno avviare quei programmi o accedere a quei siti in determinate fasce orarie.
Insomma Facebook, o l’ultimo giochino o la piattaforma (legale) per condividere file e video rallentano la produttività (o divulgano segreti aziendali che dovrebbero rimanere tali), mentre Skype o Google Maps fanno risparmiare tempi e costi: è questo il discrimine col quale alcuni programmi o siti sono proibiti e altri benvenuti.
Un’altra differenza sta nel modo col quale le aziende fanno rispettare questi divieti. C’è chi rende impossibile l’accesso e chi lascia liberi i dipendenti, salvo poi fare controlli a campione che possono costare il licenziamento a chi infrange le regole. E i lavoratori come reagiscono? Lo spiega a Leonard Berberi del Corriere della Sera un esperto:
La «black list» non sorprende più di tanto Andrea Castiello D’Antonio, docente universitario e consulente aziendale. «Le imprese, soprattutto quelle del nostro Paese, sono storicamente diffidenti nei confronti dei dipendenti», analizza. Ma aggiunge anche che «le cose ora sono più complicate»: «Come faranno i dirigenti a vietare queste applicazioni alle generazioni che stanno crescendo con Facebook, DropBox e Pandora senza rischiare la disaffezione dell’impiegato? Per non parlare dei comportamenti tipici che scattano quando un’autorità ti proibisce l’uso di qualcosa».