India, il villaggio blocca la realizzazione dell’acciaieria della Tata: “Non possiamo vendere, qui vivono gli spiriti degli avi”

Pubblicato il 31 Luglio 2010 - 11:48 OLTRE 6 MESI FA

Ratan Tata

In India centrale, Al tribunale di Jagdalpur, un piccolo gruppo di tribali di Sirisguda, un villaggio di 400 famiglie, ottiene il solito rinvio sul loro mandato di carcerazione (torneranno qui il mese prossimo). Guidati da un avvocato induista, i tribali  «adivasi» di campagna risiedono ai confini delle risaie di Sirisguda. Sono degli aborigeni della tribù Madiya, adoratori dei propri dèi locali, Prodesi, Parvadeo e Englajin.

Tata Steel, il gruppo che Fortune colloca al posto numero 410 fra i più grandi al mondo con ricavi da 21 miliardi di dollari nel 2009, progetta un’acciaieria da 4,1 miliardi e quasi 10 mila posti complessivi nel luogo dove ora vivono gli dèi e i risicoltori di Sirisguda. Ma in base alla costituzione indiana, Tata non può sfrattarli e prendersi la terra. Deve convincere gli aborigeni, la prima generazione ad aver mai mandato i propri figli a scuola, a vendere.

Dal 2006 Tata Steel ci sta provando. Da allora, l’amministrazione locale di Jagdalpur ha incriminato per reati contro l’ordine pubblico 13 capifamiglia adivasi che nelle assemblee si oppongono ferocemente all’accordo. Il gruppo di Mumbai ha messo a disposizione dei politici locali i fondi per l’offerta ai tribali, delegando loro l’operazione.

Questa prevede l’acquisto della terra a 150 mila rupie (circa 2450 euro) per acro, quando il prezzo di mercato si aggira sulle 80 mila. Chi vende avrà diritto anche a tre anni di studi tecnici o di ingegneria per i figli, un po’ di terra altrove e a un appartamento nuovo in una vera casa di cemento, non più nelle catapecchie di selci accatastate dove gli adivasi vivono da sempre.

A un giovane di ciascuna famiglia che dovesse accettare l’offerta, Tata garantisce poi un posto nell’acciaieria che sorgerà: remunerato tra le 30 e le 50 mila rupie al mese (fra 500 e 800 euro circa), l’equivalente del ricavo lordo annuo di un acro a riso grezzo; oggi, a Sirisguda, per crescere un figlio servono 7 mila rupie (115 euro) l’anno. A queste condizioni, secondo l’azienda il 70-75 per cento dei proprietari terrieri e 8 dei 10 villaggi interessati hanno già aderito: più di 8 mila abitanti su 12 mila.

A Sirisguda, invece, nessuno. A chiunque si chieda il perché, la spiegazione è la stessa: «Non possiamo vendere, a nessun prezzo. Lo spirito dei nostri avi si trova in questa terra». In questo villaggio i bambini in giro sembrano ben nutriti, i vecchi, gli uomini e le donne sono spesso scalzi, a volte seminudi, tutti proprietari almeno di qualche acro, tutti ostili a Tata. Qui è raro trovare un adivasi che sappia esattamente quanti anni ha, il solo tempo che conta è un presente continuo, in equilibrio e senza progresso; l’unico passato rilevante sono gli avi, quelli che vivevano in questa terra «migliaia di anni fa».

Tata aspetta e non molla: ha disperatamente bisogno dell’acciaieria. Secondo Siddhartha Roy, economista del gruppo, oggi l’India paga le materie prime il 15 per cento più della Cina perché non ne produce abbastanza e deve importarle. Qui intorno a Jagdalpur esistono giacimenti di ferro e bauxite fra i più vasti del subcontinente. L’acciaio di queste parti potrebbe alimentare il boom dell’industria indiana dell’auto, le cui vendite sono salite del 40% solo nell’ultimo anno. In un Paese con 500 milioni di poveri e un settore manifatturiero ancora debole, è da lì che possono arrivare i posti di lavoro del futuro.