Scontro sociale oggi, come i bacauda in Gallia ai tempi di Roma

di Luca Montecchio
Pubblicato il 16 Dicembre 2011 - 06:23 OLTRE 6 MESI FA

Le gravi tensioni sociali degli ultimi anni sono un dejà vu per gli storici che, attraverso la lettura delle fonti, posso cogliere delle somiglianze con ciò che già è avvenuto nei secoli passati. Si pensi al secolo III dell’era cristiana quando l’impero romano viveva momenti particolarmenti difficili.

Diverse tribù germaniche premevano lungo il limes renano e una crisi economica di una certà gravità pesava sui ceti meno abbienti della romanità. Alcune province, quelle galliche in particolar modo, subirono le conseguenze di quella che comunemente si chiama crisi del terzo secolo al punto che buona parte della popolazione scivolò lentamente ma inesorabilmente verso la povertà.

In Gallia, come d’altronde in altre province dell’impero, Roma, da molti, poteva spesso essere vista come una sorta di sanguisuga pronta ad impadronirsi delle ricchezze localmente prodotte, ma è altrettanto vero che essa rappresentava l’unico baluardo di fronte alle popolazioni germaniche stanziate lungo la riva destra del Reno che, durante tutto il III secolo, avevano tormentato i territori limitrofi con devastanti scorrerie. Esse se non fossero state frenate e poi sconfitte da un esercito, certamente indebolito ma non per questo in disarmo, avrebbero certo valicato le Alpi a Sud e i Pirenei a Sud-Ovest.

Ad aggravare una situazione già ai limiti della sopravvivenza va considerato come nelle campagne del tardo secolo III vigeva ormai una sorta di regime feudale che godeva di una notevole indipendenza rispetto al governo centrale. I signori di campagna avevano milizie proprie addestrate a difendere i terreni dei loro domini.

La riforma fiscale dioclezianea aveva stabilito la creazione, diremmo noi per decreto, della cosiddetta servitù della gleba per legare alla terra buona parte di coloro che da soli non potevano sopravvivere ma che erano necessari per la lavorazione della terra stessa.

La classe media aveva forse avuto un periodo di tregua durante gli anni in cui fu sottoposta all’imperium Galliarum. Si trattò di poco più di un decennio in cui le Gallie, la Britannia e la penisola iberica si erano staccate dal governo centrale romano per dare vita ad una nuova entità politica che permise alla classe media e soprattutto a coloro che abitavano le zone rurali di avere una qualche speranza di sopravvivere.

Allora lo iato con le città era ancor più profondo rispetto ai tempi moderni. Diversa infatti era la lingua, la cultura e financo il credo religioso nelle campagne rispetto ai centri urbani. A proposito della religione va detto che il cristianesimo, credo diffuso ormai in tutto l’impero e soprattutto tra i componenti la classe dirigente dello stato, solo in epoca successiva riuscì a penetrare nelle regioni rurali con il monachesimo. Nel periodo di cui trattiamo il Verbo del Cristo ancora non era presente se non in minima parte nei cuori di coloro che non abitavano in città. Anzi in alcune regioni della Gallia – ci riferiamo in modo particolare all’Armorica –, lontano dai centri abitati, è plausibile fosse ancora presente la religione druidica, propria della Gallia nonché della Britannia. Si trattava di una credenza che distingueva nettamente l’antico mondo pre-romano della Gallia dal mondo latino, visto da alcuni come oppressore.

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Le rivolte del III secolo in Gallia vanno sotto il nome di bacauda. L’origine del nome è incerta. Il termine, per i più, sarebbe di origine celtica e si trattava ed indicava quei rivoltosi, nobiles che si ribellano a Roma a causa dell’iniquità delle tasse, rusticani, contadini quindi, briganti che imperversavano nelle campagne ormai privati di qualsivoglia controllo statale; schiavi addirittura che si ribellavano ai padroni. Sicuramente persone cum militaris habitus ignari agricolae appetiuerunt, cum arator peditem, cumpostar equitem … imitatus est. Stando alle fonti si tratta di un eterogeneo movimento di rivolta nato nelle campagne contro l’iniquità della tassazione romana e non certo una ribellione contro Roma in quanto potere imperiale. Questa ipotesi, che pure è stata da qualcuno sostenuta, si appoggia soprattutto sul fatto che la ribellione sarebbe nata in zone poco romanizzate ma al riguardo c’è da osservare come le campagne fossero da sempre meno romanizzate delle città che sono il frutto più succoso della conquista romana; d’altra parte, almeno per quanto concerne i domini, si deve supporre che fossero gallo-romani che avessero ricevuto un’educazione romana. Le loro azioni, pertanto, non erano certo frutto di esperienze culturali legate al mondo druidico. Quei domini si ribellarono invece alle gravissime tasse richieste da Roma e se mai ci furono rivendicazioni indipendentistiche esse, non riportate da nessuna fonte, saranno state minime rispetto a quelli che miravano ad un’imposizione fiscale più equa. Essi arrivarono anche al punto, stando a Mamertino, di devastare le proprie terre, trattandosi forse di quei piccoli proprietari caduti in disgrazia poco tempo addietro che preferivano vedere distrutto tutto piuttosto che vedere altri proprietari su ciò che era stato loro.

Nella patria di Vercingetorige gli abitanti di ceto più elevato, delle campagne, avevano ormai raggiunto un notevole grado di integrazione con Roma, anzi erano romani di nome e di fatto e con ogni probabilità si sarebbero sentiti poco in sintonia con Burgundi, Alani, Goti e varie tribù stanziate sulla riva destra del Reno da dove partivano per violenti scorrerie che tante devastazioni, nel corso del III secolo, avevano inferto ai territori della Gallia, contribuendo non poco alla rovina della sua economia. Da quelle scorrerie poteva difenderli solo l’esercito di Roma, di quella Roma che aveva dato loro teatri, acquedotti, terme (si pensi alle condizioni igieniche mai viste prima e che mai più ci saranno in Europa e nel mondo, se non in epoca recentissima), nonché possibilità, per molti, di istruirsi e prosperare. I domini, soprattutto, non avrebbero avuto nessuna ragione di rinunziare a tutto questo. Essi protestavano contro lo stato centrale reo di aver avallato una riforma fiscale non più basata sul testatico ma sul principio di territorialità, aumentando pertanto la tassazione in regioni la cui densità di popolazione era andata nel corso dei decenni vieppiù diminuendo. I possidenti, a loro volta, iniziarono ad aumentare la tassazione dei sottoposti che, già poveri di loro, si vedevano privati del minimo necessario per sopravvivere. Nello stesso tempo veniva indicato ai disperati il colpevole o meglio la causa di tali privazioni e cioè Roma che si curava solo delle città, abbellendole e arricchendole, sfruttando il lavoro dei contadini liberi e degli schiavi che in campagna producevano il necessario al sostentamento di tutta la popolazione, di cui solo un decimo viveva in città.

L’estrazione sociale dei rivoltosi combattenti era estremamente varia, almeno stando alle diverse interpretazioni che si estrapolano dalle fonti, il che testimonia la gravità della situazione economica in Gallia. Di fatto dobbiamo immaginare che le difficoltà legate alla sopravvivenza riguardassero tutti dagli schiavi ai nobili. Naturalmente le classi più deboli soffrivano in modo particolare quella che si potrebbe chiamare una congiuntura economica sfavorevole, mentre quelle più abbienti erano in grado di sopportare meglio tale situazione seppur tra molte difficoltà.

Se i bacaudae fossero stati solo contadini disperati forse avrebbero avuto una qualche probabilità successo considerate le zone in cui poterono manifestare le loro frustrazioni. Ma essi erano certamente guidati da frange di nobiltà terriera che desiderava tornare ad una situazione almeno vicina a quella appena vissuta nell’ambito dell’imperium Galliarum quando cioè le Gallie erano tornate il centro di gravità della politica economica della provincia. Ma chi guida i bacaudae non vuole certamente eliminare un padrone che sarà stato vessatorio ma che garantiva determinate certezze inerenti al censo, con nuovi padroni di cui si ignorava come avrebbero reagito di fronte ad una società organizzata. Di cui anzi quel che si sapeva spaventava. I bacaudi vogliono semmai trovare un punto di accordo economico e sociale con l’istituzione imperiale tagliando di fatto fuori le possibili velleità delle popolazioni germaniche che, nel secolo III, iniziano una spinta che aumenterà vieppiù di intensità sino a schiantare le resistenze dell’antico impero e, infine, arrivando a travolgerlo. Nessuno infatti vuol mettere a repentaglio l’impero romano ovvero l’unica istituzione politica capace di dare alla stragrande maggioranza dei cittadini istruzione, possibilità di prosperare e di ascendere le classi sociali, terme e quindi condizioni igieniche mai viste prima e che mai più ci saranno se non in epoca modernissima. Di fatto però anche i bacaudae concorsero al disfacimento dell’impero stesso.

La prima rivolta di cui si ha notizia è quella capeggiata da Amando ed Eliano, i cui nomi però non sono menzionati da Mamertino, autore coevo, bensì da Eutropio, Aurelio Vittore e Orosio, tutti scrittori successivi a quei fatti. Le zone che subirono devastazioni a causa di tale rivolta furono quelle dell’Armorica e cioè della Gallia nord occidentale ma non solo. Zosimo infatti riporterà la presenza dei bacaudae anche sulle alpi dove Stilicone nel secolo V aveva inviato il comandante Saro contro l’usurpatore Costantino. Ma per quanto concerne la vicenda bacauda del secolo V stiamo anticipando i tempi ma solo per dare un quadro geografico più esaustivo delle zone interessate alla vicenda. Essa forse si svolse anche nelle zone di cui facemmo cenno prima e nei pressi di Amboise, ad est di Tour e quindi nella Francia centrale, intorno Martigny-en-Valais, più o meno tra Ginevra e Losanna, e forse nei dintorni di altre città gallo-romane.

I rivoltosi ebbero, pertanto, gioco facile nel riunire contadini ridotti alla disperazione. Roma appariva loro come un essere capace soltanto di togliere tutto a persone comunque appartenenti all’impero.

Diocleziano, non potendo accettare simile situazione, per sedare la rivolta, non esitò ad inviare Massimiano con il titolo di Cesare. La notizia di questa campagna di Massimiano ci vengono da Orosio, secondo il quale i romani avrebbero ottenuto un successo facile contro quelle schiere di bacaudae malamente organizzati e peggio ancora armati. In realtà i rivoltosi che, nella loro disperazione, erano pronti anche ad assediare città come Autun, resistettero strenuamente all’esercito romano per mesi, il che significa che Amando e Eliano erano in qualche modo riusciti a disciplinare un’accozzaglia di uomini affamati e disperati in un vero e proprio esercito. Ed ecco che tale addestramento ci induce a pensare che quei tali, Amando ed Eliano, avevano una sicura preparazione militare e sapevano anche ben trasmettere ciò che sapevano. Certo non avevano cercato lo scontro in campo aperto dove non avrebbero avuto scampo contro forze ben armate e ben addestrate; ma le impegnarono con una vera e propria guerriglia, avvantaggiati anche dalla perfetta conoscenza del territorio. Sta di fatto che prima che si potesse sedare la rivolta passò diverso tempo. Tali ingaggi repentini e fulminee ritirate sono da Eutropio considerate levia. Il che permise quindi ai rivoltosi di resistere per mesi. Se invece fossero stati così incauti da affrontare le legioni di Roma in una battaglia campale sarebbero stati sconfitti in una sola battaglia. Massimiano invece, costretto per alcuni mesi dai bacaudae che agivano con pazienza, cercò di snervare l’avversario per poi affondare il colpo. Dovette infatti agire seguendo la massima prudenza per evitare trappole simili a quella in cui incappò Varo nella foresta di Teutoburgo. La situazione era certamente diversa ma affrontare la guerriglia impone azioni ben ponderate, frutto di attento studio della regione. Aurelio Vittore, una delle fonti, si limita a dire che la vittoria fu rapida, considerando che nel giugno del 286 il nuovo cesare si trovava a Mogontiacum, si deve supporre che contemporaneamente abbia condotto operazioni militari sia sul fronte bacaudo sia su quello germanico. Anche perché lo stesso Aurelio Vittore racconta come persino il generale Carausio fosse impegnato su due fronti. Egli infatti si trovò a combattere anche bacaudi lungo un tragitto molto ampio. Quel comandante romano attraversò buona parte della Gallia, sia all’inseguimento dei rivoltosi, sia nel tentativo di frenare Burgundi, Alamanni, Franchi, Caiboni ed Eruli che stavano calando nel territorio romano senza che fosse possibile frenarli e, in tale contesto, la campagna militare contro i bacaudi rappresentava un’ulteriore smagliatura nei rapporti che l’impero cercava affannosamente di riannodare con una provincia in perenne travaglio e che aveva trovato al suo interno i mezzi per reagire alla duplice pressione esercitata dalla voracità delle casse imperiali e dal barbaro sempre alle porte. Ciò per dire che non era certo il caso venisse reclamizzata una vittoria ottenuta a caro prezzo nel contesto di una provincia imperiale tra le più importanti. Con ogni probabilità poi le tensioni sociali in Gallia vennero soltanto sopite e quindi il redde rationem era stato solo rimandato. C’è da dire che, come sottolinea il Sirago, Massimiano fu «veramente colpito dall’episodio dei bacaudi, i quali non erano secessionisti, ma ribelli in nome di una più alta giustizia sociale. Le campagne erano abbandonate, le colture rovinate, le case coloniche e le città in stato di sfacelo: e, a colmo di avvilimento, mancavano le braccia di lavoro, mancava la manodopera». Massimiano dunque decise di non passare per le armi, come sarebbe stato nel suo diritto, i prigionieri catturati nelle campagne contro i Franchi ma, divisi in gruppi, li inviò nella Gallia Belgica a lavorare come coloni nei terreni ormai abbandonati. In tal modo riuscì, non solo a frenare una popolazione pericolosa per la sicurezza del limes renano, ma anche a assicurarsi i loro servigi e la loro riconoscenza. Sicuramente, nel periodo immediatamente successivo la rivolta bacaudica, i frutti dei terreni privati poterono riconquistare i mercati esausti da troppo tempo di congiuntura sfavorevole. Non siamo però certi che quei frutti ricaderono su tutta la popolazione bensì soltanto sui proprietari terrieri e su pochi altri fortunati. I bacaudae comunque poterono tornare alle loro terre. Massimiano di certo non voleva mantenere alta la tensione e l’Impero non necessitava di altri nemici interni. Di sicuro la repressione indusse i rivoltosi a più miti consigli anche perché la situazione obiettiva di coloro che, spinti solo dalla disperazione, avevano tentato un colpo di mano, non crediamo che, nel frattempo, fosse migliorata in modo notevole, anzi. Infine i domini che noi crediamo sempre presenti sullo sfondo delle imprese bacaudiche, non avendo raggiunto il loro scopo, si rimisero a più miti consigli. Il tempo, avranno pensato, giocava a loro favore.